È tornato Zelig. Stesso canale (prima serata Canale 5), stesso luogo (Teatro degli Arcimboldi a Milano), stessi conduttori (Claudio Bisio e Vanessa Incontrada), per la maggior parte stessi comici (ve lo ricordate Giovanni Vernia che interpreta Jonny Groove?), stesso umorismo (oggi con banali e forzate battute sul coronavirus e sul green pass). Insomma, un tuffo indietro di dieci anni, quando le sensibilità e i riferimenti culturali del nostro Paese erano ben diversi.
Il cabaret non è ancora andato in pensione e anzi si ripropone in televisione, su Mediaset precisamente, e tra una battuta sul tedio del matrimonio e una sui ristoranti che non sono più quelli di una volta emerge una comicità incapace e/o senza la volontà di adattarsi ai tempi odierni, sia nei suoi protagonisti (con qualche nuova eccezione come Davide Calgaro, Vincenzo Comunale e Max Angioni) che nelle sue tematiche; perché per quanto non manchino le battute sul Covid, questo sembra diventare quasi un provvidenziale evento portatore di nuovo materiale da scrittura, mostrando l’irresistibile bisogno di allinearsi alla narrazione collettiva sulla situazione pandemica, e sinceramente non se ne sente ulteriore bisogno visto che se n’è già parlato in tutte le salse.

Una programmazione che non si innova
La solita comicità televisiva dunque, tra l’altro trasmessa con un format eccessivamente lungo, a cui Mediaset è ancora molto affezionata: due ore e mezza di programma che poco si adattano ad una palinsesto televisivo nel 2021, quando oramai la comunicazione e l’intrattenimento sul web, in generale, cercano di comprimere i tempi di coinvolgimento dell’utente.
Intendiamoci, nessuno contesta l’esistenza di Zelig di per sé, o di altri programmi simili come Colorado e Made in Sud. Piuttosto, è desolante constatare come la televisione non sia in grado di innovarsi dal punto di vista contenutistico e di forma, con conseguente mancanza di sintonizzazione con le nuove generazioni o comunque con un pubblico più giovane rispetto allo spettatore medio; ciò non riguarda solo la comicità ma si osserva in maniera generalizzata nell’ambito dell’intrattenimento.

Potreste obiettare, “che ci importa della televisione?”. In effetti non saprei replicare a questa domanda, inutile dire che i giovani (decidete voi chi comprendere in questa categoria) utilizzano sempre meno il mezzo televisivo rispetto ai coetanei del passato e sicuramente rispetto all’attuale pubblico più anziano; quindi, il “conservatorismo” e la fossilizzazione descritti sopra non sorprendono più di tanto dal momento che le reti televisive si concentrano sullo zoccolo duro di audience poco incline ad abbandonarle, che potrebbe corrispondere grosso modo agli over 50.
E pertanto, dopo tutto, non sorprende neanche che l’azienda di Pier Silvio proponga il solito cabaret stanco e superato, che però, evidentemente, appare tale solamente alle persone più giovani racchiuse nelle loro bolle social portatrici di altri punti di riferimento culturali, e non ad un pubblico più avanti con l’età e maggioritario nel paese.
Mancanza di coraggio?
Sarebbe interessante capire se è la domanda di un certo tipo di contenuto a guidare l’offerta o viceversa; realisticamente la relazione è bidirezionale: sicuramente esiste una percentuale di pubblico sufficientemente ampia che ricerca tale prodotto televisivo, ma è anche vero che trasmettere per anni su grossi canali alcuni programmi piuttosto che altri (non dimentichiamoci di Colorado) “costringe” gli spettatori a guardarli e plasma le loro preferenze.
Sappiamo che una rete televisiva non può prescindere dagli ascolti, anche se questi non vengono considerati il fine ultimo; anche la televisione segue pur sempre un modello di business, è un’industria, e le scelte editoriali/autoriali vengono prese con criteri di convenienza economica piuttosto che di giusto o sbagliato. Tuttavia, cercando di non essere troppo naïf, la televisione italiana potrebbe provare ad uscire dalla sua zona di comfort e proporre un contenuto originale e accattivante per una nuova fetta di pubblico (magari giovane), questo per quanto riguarda l’intrattenimento in generale e non solo la comicità. Pena la lenta morte del mezzo televisivo, la quale, vista in un’ottica temporale più ampia forse è inevitabile, senza per forza doversi dispiacere di questo fatto.

Ad esempio, pur con tutti i suoi difetti e con un livello di professionalità certe volte imbarazzate, mamma Rai è riuscita a sfornare un ottimo programma come Una pezza di Lundini, grazie al lavoro autoriale di Giovanni Benincasa, oltre ovviamente al fondamentale apporto di Valerio Lundini. Una boccata d’aria fresca nel palinsesto della tv pubblica che ha inoltre beneficiato del circolo vizioso che si viene a creare grazie alla TV rilanciata dai social, rilanciati a loro volta da essa. Nell’epoca attuale forse questo diventa l’unico circuito in grado di tenerla in vita.