Ogni anno su Twitter si scherza sul fatto che l’Italia sia una “Repubblica democratica fondata su Sanremo”, il che a ben guardare non è poi così lontano dalla realtà, lo dimostrano tante cose: il rilievo mediatico della kermesse; i fondi stanziati e i cachet di ospiti e presentatori, che hanno, giustamente, fatto molto discutere; e da ultima la decisione di permettere la capienza totale dell’Ariston quando per tutti gli altri eventi, teatri, cinema e manifestazioni sportive, la capienza è ridotta.
Devo ammettere che ho riso molto leggendo le reazioni alle lamentele di un utente del “Twitter calcio” (epiteto denigratorio con cui si definisce il gruppo di utenti maschi che su Twitter parlano solo di calcio, hanno foto profilo di calciatori e spesso e volentieri, ma la sottoscritta non vuole assolutamente insinuare una relazione biunivoca, scrivono tweet o commenti sessisti/misogini di vario tipo) che si è lamentato perché lui non può vedere la Juve e invece l’Ariston è al 100%.
Sia bene inteso: non ho riso perché, come qualcuno ebbe a insinuare, sono una “stronza-no-calcio” ma perché ho trovato che questo scambio fosse esemplificativo e rappresentativo delle due anime con cui l’italiano guarda al Festival, e questo al di là della situazione odierna di stadi, teatri, cinema e concerti che è indubitabilmente drammatica.

O si ama o si odia
Supponendo che una certa élite culturale non sia interessata a Sanremo se non come fenomeno culturale e di costume e quindi oggetto di studio, possiamo dire che il fruitore del Festival è, per ovvie ragioni, lo stesso della televisione in generale e cioè l’italiano medio (espressione che qui non è ironica o denigratoria, non è l’italiano medio che cantavano gli Articolo 31 per capirci).
Le principali fazioni sono due e molto estreme, perché chi sta nel mezzo non ci piace, il Festival o si ama o si odia: c’è chi aspetta con ansia questa settimana, certamente per sentire la musica ma molto più per crogiolarsi in scandali, scaramucce e inciampi sui gradini, con Pelù che scippa una vecchietta e Bugo che scappa dal palco, e chi invece lo disprezza totalmente e non solo: deve farlo sapere a tutti che lui non vede Sanremo, che è la morte della musica, sacello del trash e del pettegolezzo a buon mercato (vorrei poi vedere se tutte queste raffinate menti non sono andate a cercare su internet la foto della farfallina di Belén Rodríguez nell’ormai lontano 2012). Se ci pensiamo però la tv di qualità in Italia è molto poca, la maggior parte dei programmi non sono qualitativamente notevoli anzi sono, scusate la parola, merda.

E allora perché nessuno si straccia le vesti come per Sanremo? Certo un po’ di polemiche per la D’Urso e Uomini e Donne ci sono (eccomi, presente!) ma niente raggiunge il pàthos degli haters di Sanremo, ma perché? Forse perché Sanremo tocca un punto delicatissimo, una questione spinosa che sta molto a cuore alla maggior parte di noi e cioè la musica.
La musica è quanto di più divisivo ci possa essere, per ogni fruitore medio di musica (non parlo di esperti perché qua si parla di italiano medio e quindi, sempre con tutto il rispetto, di amorevole e appassionato pressapochismo) dell’altra musica è cacca fumante: per alcuni lo è la trap, per altri, tipo mia madre, il rap, per altri il pop (ma solo quello italiano, che io chiamo ancora nostalgicamente “musica leggera”), per altri ancora l’heavy-metal o la musica elettronica. Per poi arrivare ai folli che “Sai De André non era poi sta gran cosa insomma le canzoni che ha scritto veramente lui son poche” e qui mi taccio.
Insomma nonostante il fruitore medio di musica non abbia competenze tecniche e possa solo dire mi piace/non mi piace, bel testo/testo banale, rimane questo snobismo orientato in vari sensi che fa sì che Sanremo per molti sia la morte. E la colpa è proprio dello snob per eccellenza, cioè il cantautore. E mi costa moltissimo ammetterlo perché io, come ogni studentә di Lettere che si rispetti, conosco a memoria i testi di tutta la discografia di De André e Guccini e poi parzialmente quelli di De Gregori, Dalla, Gaber, Battiato, Bertoli e chi più ne ha più ne metta. Perché lә studentә mediә di Lettere lo sa che prima o poi arriverà il giorno in cui, nel mezzo di un esame di Filologia romanza o di Linguistica generale il professore dirà “Bene la differenza tra lingua d’oc e lingua d’oïl la sa, ora mi può recitare a memoria il testo di Città vecchia di De André prima nella versione originale e poi in quella censurata?” e tu sai che in quel momento dovrai essere prontә, che ne va non solo della tua media ma anche della tua dignità. Quindi mi duole molto ammetterlo, ma è così.

Questione di impegno
C’è stato un momento nella storia del nostro paese, dopo il ’68 (il che è buffo se pensiamo che il motto di quella stagione è stato “Immaginazione al potere”) in cui tutti sono diventati serissimi, solo impegno, basta frivolezze. Quindi niente più romanzi: solo saggistica e al più testi sperimentali, film impegnati e di satira sociale e per finire musica impegnata: De André parla degli ultimi e degli emarginati e nel ’73 pubblica un concept molto politico dal titolo Storia di un impiegato, criticato e ritenuto ideologicamente confuso da tanti ma comunque dichiaratamente politico; Guccini scrive canzoni come La locomotiva, L’Avvelenata e Eskimo; poi c’è ovviamente Gaber che più politico di così non si può e il povero De Gregori invece fu contestato perché non era abbastanza politicizzato.
Insomma non c’era spazio per altro, o meglio un po’ di spazio per l’amore c’era ma era un amore di un certo tipo, colto, pieno di citazioni e preziosismi e ovviamente sono di quegli anni le canzoni d’amore più belle della storia della musica italiana: Valzer per un amore, La canzone dell’amore perduto, Amore che vieni amore che vai di De André, ma anche brani come Vedi cara (di un presuntuosissimo Guccini troppo superiore ad una poveraccia cui riesce difficile capire perché non ha capito già) o Anna e Marco di Dalla, insomma non c’è posto per la terna sole-cuore-amore (spiace per Valeria Rossi che nel 2001 ha cacciato una hit e ora lavora in posta).
Non si potevano certo portare queste raffinate ballate al Festival, ricettacolo di canzoni d’amore stucchevoli e banali: Bobby Solo, Iva Zanicchi e gli Homo Sapiens che cantavano “Che sei bella da morire ragazzina tu” e poi Toto Cutugno, Al Bano e Romina e tutti quei cantanti che però, piaccia o meno, hanno comunque fatto la storia della nostra musica. Quindi nacque questa separazione molto netta: il basso, le “canzonette” come direbbe Bennato o le “cantarèle” come direbbe mia madre, e l’engagée, la poesia che diventa musica e la musica che diventa impegno. E non c’era nessun punto di incontro. Poi gli anni sono passati, molti di questi cantautori sono morti, altri sono invecchiati e non cantano più. Sono arrivate nuove generazioni di cantautori, che cantano sempre di più l’amore e sempre meno la politica, il ruolo di denuncia sociale l’ha preso per un certo periodo il rap, oggi non so più chi ce l’abbia. Pippo Sowlo forse? Chi lo sa.

Pop è bello
In ogni caso la separazione è ancora presente e anche se ho seri dubbi che gli haters del Festival siano cultori di De André o Guccini, lo snobismo e la superiorità sono rimasti e sono lo snobismo e la superiorità di chi non riconosce la cultura pop, perché amare la cultura pop ci fa sentire ordinari, banali, pecoroni, perché anche se il ventunesimo secolo è il secolo dei populismi la verità è che nessuno vuole sentirsi ordinario, Nietzsche ha creato mostri, nonostante nessuno l’abbia letto veramente.
Ma cosa c’è di più bello della cultura pop? Un crogiolo di canzoni, tormentoni, film e fiction, settimanali, programmi televisivi tutti con una pretesa unica, anzi meglio una dichiarata non-pretesa e cioè: non voglio insegnarti assolutamente niente. La cultura pop è quanto di più livellante (spesso in senso positivo) e democratico possa esistere e allora viva i film dei Vanzina, viva il parlare con citazioni dai film di Aldo Giovanni e Giacomo e di Verdone, viva guardare tutti gli stessi programmi, viva Laura Pausini, viva l’omologazione (“Pasolini perdonami” come diceva Caparezza) e viva Sanremo.