Sinceramente avrei così tante cose da dire che non saprei da dove iniziare. Quindi mi rifaccio alla notizia più eclatante di questi giorni: il caso Genovese.
Ricapitolando velocemente per punti:
- Festa privata
- Alcol
- Droga
- Una ragazza viene brutalmente violentata
- Lo stupratore è Alberto Genovese
Quali di queste informazioni sono davvero utili? Le ultime due.
Posso andare ad una festa e decidere di ubriacarmi e drogarmi, ma questo non dà il diritto a nessuno di violentarmi, perché alla base c’è il consenso.
Si è liberi/e di dire di “NO” a qualsiasi tipo di avance o approccio e la persona dall’altra parte è tenuta a rispettare la nostra scelta. Se viene dato il consenso, ma questo cambia durante l’atto, l’altro/a si deve fermare e rispettare la nostra decisione, altrimenti è violenza.
Nel caso in questione, la ragazza, oltre ad essere stata drogata a sua insaputa, era senza conoscenza. Impossibile per lei dire di “no”. Ma nel dramma di essere stata violentata per ore e ore, ha avuto la fortuna di avere delle prove che testimoniassero quello che ha subito, perché di base, non si crede alla vittima, la si colpevolizza.
Il classicissimo “eh ma se l’è cercata” sta alla base della cultura dello stupro (quell’immenso pentolone in cui bolle il revenge- porn, il cat-calling, ecc). E prima che vi sentiate in dovere di controbattere, sappiate che si chiama così, cultura-dello-stupro, perché il senso comune può arrivare a giustificare perfino uno stupro.
È una cosa che viviamo tutti i giorni e non ce ne rendiamo conto, eppure è la vittima ad essere colpevolizzata. Nei titoli dei giornali in cui si dà la notizia di un femminicidio o di una violenza ci sono sempre frasi ad effetto nei confronti del colpevole che possiamo dividere in due categorie: la compassione e l’eccezione.
Nel primo caso, l’uomo va compatito perché “la amava troppo e non accettava la separazione”, un gran lavoratore ed una brava persona prima che la uccidesse con trenta coltellate.
Nel secondo caso, invece, il marito/compagno/vicino/amico assassino della vittima è una eccezione, un caso raro. Ma se fosse davvero così, la cultura dello stupro non esisterebbe.
Spoiler: esiste ed è anche ben radicata!
Funziona in questo modo da sempre e se non lo si riconosce significa che, tu uomo, vivi in una situazione di privilegiato.
Quando parlo di questo argomento, in quanto donna, vengo sempre appellata con un fantasioso elenco di nomignoli che vanno dal “femminista” (come se fosse un insulto, bah) ad altri molto più coloriti. E poi c’è la mia frase preferita in assoluto “ma gli uomini non sono tutti così”.
Vero. E se non usi violenza su una donna e le porti rispetto, vuoi un applauso? Ti stai comportando come un comune essere umano. Bravo, lo sono anche io; quindi no, l’applauso non te lo faccio.
Si può sensibilizzare, parlarne e prendere le parti delle vittime, condannando il comportamento tossico. Finché esisterà il “se l’è cercata” sulla bocca delle persone, allora la violenza sarà la normalità e la donna non si sentirà nel suo safe-space andando a denunciare.
C’è bisogno di educare al consenso e condannare la violenza. Ce n’è così tanto bisogno che, in quanto donne, parlare di rape-culture (cultura dello stupro) non significa prendersela con gli uomini, ma chiedere loro aiuto.
(Foto di copertina da Ilya Rudyakov via Behance)