Non ho chiuso occhio stanotte, ieri sera ho visto La scuola cattolica, la pellicola di Stefano Mordini tratta dal romanzo di Edoardo Albinati che, oltre ad aver vinto lo Strega nel 2016, è anche un’agghiacciante storia vera.
Al centro stanno i fatti avvenuti tra il 29 settembre e il 1ottobre del 1975 in una villa a San Felice Circeo (Latina), dove due ragazze, Rosaria Lopez (19 anni) e Donatella Colasanti (17 anni), vennero minacciatevia, torturate e stuprate senza sosta per più di 30 ore e chiuse poi, una volta credute morte, nel bagagliaio di una Fiat. Donatella dalla macchina ci esce, stravolta e ferita, ma per Rosaria non c’è più nulla da fare. Autori delle violenze sono tre giovani della cosiddetta buona borghesia romana, conosciuti qualche giorno prima; Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira.
Il fatto ha infiammato la cronaca e costituito uno spartiacque, un prima e dopo il massacro del Circeo, con quei ragazzi così giovani e capaci di atroci violenze, immersi in quello che era un tessuto sociale apparentemente controllato e sicuro, quello dei quartieri residenziali, delle villette al mare e della famigerata “scuola cattolica”.
Cos’è la scuola cattolica
La scuola cattolica è un pensiero, una legge, repressione e mancanza di dialogo, mascolinità tossica, punizione al posto di educazione; non si insegna a pensare, si insegna a pensare come. All’interno della rete di menzogne, omissioni e violenza è difficile stabilire che cosa pesi di più sulle spalle dei giovani, cosa dia direzione tragica alle loro intenzioni.
Il film però non ci dice che è stata l’educazione. O meglio, chiaramente vorrebbe, ma lo scopo prefissato non regge, siamo davanti a un disegno tratteggiato senza una chiara coscienza dei fondamentali. Non capiamo, tra i simboli utilizzati, quali siano decisivi e quali no.
L’istituto privato frequentato dai protagonisti è una scuola maschile diretta da ecclesiastici di vario genere. Chi fatica a sembrare un prete – e infatti lo si ritrova a consumare atti sessuali con delle prostitute, un modo abbastanza ingenuo di implicarne la corruzione morale e l’ipocrisia, vero o meno che fosse; chi umilia gli studenti (ma poi vietare di scrivere un tema su Adolf Hitler è maltrattare? Semmai si può discutere sulla mancanza di dialogo con i ragazzi, sul perché Adolf Hilter non sia un modello e non lo debba essere) e chi li spinge invece a relativizzare la dialettica bene-male, ponendoli davanti a un dipinto in cui sei uomini esercitano violenza su Gesù Cristo, chiedendo loro di sospendere il giudizio su carnefici/vittime.

L’ambiente manca di progressismo e spinge a comportamenti rivoltosi? Può essere, perché è praticamente un collegio ed è esclusivamente maschile – il che forza i ragazzi a costruire rapporti intrapersonali basati sulla sopraffazione, sulla continua necessità di provare il proprio valore fisico e la propria mascolinità.
Rituali e gruppi
Chi si sottrae ai macabri riti, ai pestaggi, rimane ai margini e questa non è una posta che la maggior parte del gruppo è disposta a sostenere; Gioacchino, studente rispettoso e intelligente, inserito in una famiglia che a differenza di quelle dei compagni crede davvero nei valori cristiani, difende i più deboli e matura una sua autonomia di giudizio, senza mai tradire se stesso. Lo stesso narratore, Edoardo, ha al suo fianco due amici le cui famiglie presentano difficoltà e scompensi affettivi, ma non si votano alla violenza né allo scimmiottamento del gruppo.
Gruppo in cui, tra l’altro, non figurano i criminali coinvolti nel massacro; questi sono più grandi di qualche anno, Angelo è il fratello di un compagno di Edoardo, il quale è forse un latente omosessuale, forse no, ma sul quale il maggiore esercita violenza psicologica, insistenza che mette a nudo la sua personalità disturbata (altri indizi il film non ne dà).
Dato il comune contesto, per due ore scarse, la narrazione procede su binari paralleli giocando con i piani temporali; in apertura, la straziante scena di Donatella (Benedetta Porcaroli) che batte dall’interno della Fiat 127 in cui è rinchiusa (ripresa poi nel finale), poi un insieme scoordinato di flashback che spaziano da 6 mesi prima, a 5 mesi prima, a 150 ore prima, per poi tornare a 3 mesi prima etc. Un tour de force insopportabile che sta a metà tra quello escogitato da Christopher Nolan per Dunkirk e quello di Simona Ventura per Le 7 giornate di Bergamo, con addirittura un dialogo in cui i protagonisti si riferiscono ad un evento avvenuto “la sera prima” ma in realtà erano passati un paio di mesi.
Tuttavia, questo non inficia l’importanza e la sostanza della storia, che recupera dignità nella seconda parte, quando ci avviciniamo alle violenze e che tutto sommato trova una struttura simbolica più efficace.
Sotto temi
I ragazzi trattano le vittime con superficialità, si fanno beffe di loro basandosi sulla loro presunta superiorità di ceto; le due abitano alla Montagnola, l’amico comune che li presenta non sa nemmeno dove si trovi, lo capisce solo quando una di loro dice “vicino all’EUR”. Si tratta quindi di due mondi non comunicanti, in cui chi proviene dall’uno non ha interesse a trattare con rispetto chi è capitato a nascere nell’altro? Il film sembrerebbe dirci di sì e forse ha ragione; la componente di classe è fondamentale nella costruzione della personalità di questi giovani e nel loro modo di leggere la realtà.
Non tutti comunque partecipano all’azione; Marco, l’amico dei tre che li presenta, non giungerà alla villa. Mai ci viene detto che il gruppetto sia neofascista, dato sicuramente meritevole di attenzione e storicamente verificato su cui si poteva insistere non tanto per scagionare il bigottismo borghese, quanto per aderenza ai fatti.
Efficace invece l’espediente di sdoppiamento delle esperienze dei due gruppi di cui si è seguita la storia, quello composto da Edoardo (più riflessivo e socialmente sfigato), i suoi amici e due coetanee, diretto in macchina ad una festa al Circeo, e quello di Angelo, Gianni e le due amiche vittime di violenza, al quale si aggiungerà poi un terzo, Andrea Ghira, uscito recentemente di prigione e deciso a farsi chiamare Jacques (anche qua si poteva spiegare perché, i tre avevano una coscienza politica sviluppata, nefasta e riprovevole? Certo, ma #noncelodicono).

Entrambe le auto arriveranno al Circeo, con una sequenza che ricorda lontanamente l’inquadratura di Tarantino in Once upon a time in Hollywood, con il cartello stradale di Cielo Drive, in due ville parallele, ma ben diversa sarà la natura degli incontri sessuali esperiti dai giovani.
Appena giunti nella villa di Ghira, l’azione si consuma velocemente; da un’inquadratura di Rosalia e Donatella che ammirano il panorama si passa alle minacce con l’arma da fuoco, al buio del bagno in cui vengono rinchiuse per ore e fatte poi spogliare una dopo l’altra, ridotte a carne da martoriare ed espugnare totalmente del proprio valore di umani. Non c’è nulla che faccia pensare che le due usciranno di lì vive, dopo averle usate verranno gettate, ridotte alla morte dalla fatica e dalla violenza.
Questa parte è, a mio avviso, molto forte e necessaria: va vista. Il nudo a cui siamo sottoposti, il sangue, le risate e le lacrime, gli occhi disperati, ci parlano e ci devono parlare. A prescindere dalla giovane età, anzi, proprio alle generazioni più giovani.
Tutti i protagonisti dell’efferato banchetto, della macabra danza di carne e sangue sono nudi davanti allo schermo, ma la loro nudità ha significati diversi; per i ragazzi è violenta liberazione, trasgressione dell’ordine sociale, per le ragazze segregazione, crudeltà e omicidio.
Rosalia rimane in silenzio, è sconvolta. Donatella prova a supplicare, a resistere. Una muore annegata in una scena che non vediamo, l’altra viene legata e picchiata fino a perdere conoscenza, fino ad essere caricata nel bagagliaio con l’amica, apparentemente senza vita.
I tre fanno piani per la serata, Angelo e Gianni si salutano abbandonando la vettura parcheggiata nel quartiere, devono ancora decidere cosa farne di quelle due ragazze che hanno costretto a fare sesso con loro a turno per giorni, torturate e picchiate e ora, dicono con voce sprezzante “dormono”.
Gli attori

Menzione a Luca Vergoni, giovane interprete nel ruolo di Angelo Izzo, che sia nel finale che nelle ultime sequenze alla villa restituisce lucidamente l’instabilità e la follia dell’omicida, facendosi arrestare ridendo, una trovata che trovata non è perché la cronaca fa da padrona, ma che in mancanza di un bravo attore sarebbe apparsa grottesca e invece è magistrale.
Indimenticabile anche Benedetta Porcaroli (Donatella), alla prova con un ruolo intensissimo ed estremamente difficile, capace di reggere la scena con il solo sguardo.
Quello che rimane è l’angoscia, più della critica sociale, per un mondo capace di tanta crudeltà, per la natura umana che, come dice il professor Golgota (Fabrizio Gifuni), è permeata di una tendenza al male.
Vederlo, parlarne, ma soprattutto sostenere il dialogo sulle violenze di genere, sulla superficialità e il tenere gli occhi chiusi che generano orrori e sospensioni di giudizio. Una società maschilista, un contesto in cui l’uomo si prova con la sua forza, produce violenza, niente di più, niente di meno.
Andiamo al cinema, ma facciamo anche qualcosa – che è un finale retorico, ma in Italia si usa così.