“Un referendum sulla Costituzione non può avere colore politico”. Questo è quello che diceva l’attuale ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel 2016, alle porte del referendum costituzionale di cui l’allora Presidente del Consiglio Renzi si era fatto portabandiera. Certo è che aveva ragione, una modifica costituzionale non può e non deve essere fatta in un’ottica politica nel senso propagandistico ed elettorale. Certo è pure, e questa cosa non vi sorprenderà, che il dialogo politico italiano è colmo di incoerenza e questo referendum è di color “giallo stella”.
Il 20 e 21 settembre gli italiani saranno chiamati a decidere sulla conferma o meno della legge costituzionale sul taglio dei parlamentari. Se vincesse il “Sì” il numero dei parlamentari verrà ridotto a 600, portando la Camera dei deputati a 400 “colletti bianchi” e il Senato a 200; in caso di vittoria del “No” prevarrà lo status quo e non vi sarà alcun cambiamento negli assetti istituzionali. Quindi, è facilmente deducibile che la portata di una riforma del genere sia travolgente e che essa, in caso di conferma, sia in grado di sconvolgere enormemente il concetto di rappresentanza a cui siamo ormai abituati. Allora io mi chiedo: perché a una riforma costituzionale, soprattutto se così importante, deve essere attribuita una valenza quasi esclusivamente politica?
Il taglio dei parlamentari è una delle battaglie storiche del Movimento 5 Stelle, lo ritengono uno strumento per combattere la tanto odiata “casta” e per ridurre la spesa pubblica. Tuttavia, il risparmio sarebbe irrisorio (all’incirca 90 centesimi l’anno a testa) e la riduzione del numero di deputati e senatori renderebbe la politica ancora più elitaria, si potrebbe quindi dire “una casta ancora più casta di prima”: ironico no? Ci sarebbe da ridere molto, se solo non si trattasse di mettere mano alla nostra Carta.
I problemi sono molteplici e perlopiù correlati alla rappresentanza, soprattutto regionale. Infatti, le regioni più piccole sono quelle che risentiranno maggiormente dell’eventuale conferma della legge, in quanto un partito che ottiene poco meno del 20% dei voti rischia di non ottenere alcun seggio in Senato, che ricordiamo essere l’organo rappresentativo delle regioni. Inoltre, la rappresentanza nazionale secondo il parametro “un deputato per tot abitanti” subirebbe un crollo impressionante, portando l’Italia in fondo alla classifica tra i Paesi UE. Poi ci sono ben tanti altri modi per “risparmiare”, magari agendo direttamente sugli stipendi dei parlamentari stessi, che sarebbero sia più efficaci che maggiormente a tutela della democrazia rappresentativa.
Non voglio focalizzarmi, però, sul contenuto del referendum, bensì sul dialogo che si è costruito attorno ad esso. Quasi l’interezza dei partiti componenti l’arco costituzionale si sono schierati a favore del “Sì”, con naturalmente i 5 Stelle che guidano il fronte pro-taglio. Vediamo della stessa posizione la direzione del centro-destra e pure il Partito Democratico. Solo il fronte liberale sembrerebbe schierarsi per il “No”. Sembrerebbe quindi un referendum dall’esito scontato, no? Naturalmente non lo è, e l’hanno capito bene quelli che conoscono le cosiddette “dinamiche di Palazzo”, caratterizzate da fare buon viso a cattivo gioco ma soprattutto da scambi di favori. Mentre il MoVimento si presenta compatto al voto (quasi esclusivamente Toninelli, ex ministro dei Trasporti, si è schierato a favore del no), il PD ha preso una posizione molto vaga per salvare la stabilità dell’esecutivo. Infatti, Zingaretti ha annunciato che la scelta della direzione nazionale sarà quella di schierarsi per il “Sì”: le rivolte degli iscritti e della “vecchia dirigenza” non sono mancate. Nomi illustri come Prodi hanno affermato l’insensatezza della posizione assunta da Zingaretti & Co., accusandoli indirettamente di essersi venduti solo per preservare gli equilibri a Palazzo Chigi. Pure alla Festa dell’Unità l’elettorato si è fatto sentire, contestando vivamente le scelte dirigenziali. Allora io mi chiedo, in maniera retorica ovviamente: ha senso rinunciare ad un pezzo di democrazia solo per tenere a galla un governo già vacillante? Certo, la destra sovranista andrebbe al governo con tutti i problemi che ciò comporterebbe, ma quali vantaggi porta perdere totalmente la faccia?
Un sondaggio condotto da Winpoll ha evidenziato le propensioni degli elettori dei principali partiti. Gli elettori pentastellati voteranno secondo il colore partitico: quasi il 100% si schiera per il “Sì”. Il PD presenta una base spaccata a metà, praticamente un fifty-fifty. Mentre l’elettorato di centro-destra si attesta attorno al 60% per il fronte favorevole al taglio. Tuttavia, emerge un dato eclatante: più del 40% degli aventi diritto al voto non sa cosa votare o si asterrà. Il “Comitato per il No”, affiancato dal movimento delle 6000Sardine e da un cospicuo numero di costituzionalisti e avvocati, si sta battendo per accalappiare quella enorme fetta di indecisi che potrebbe ribaltare il risultato ad oggi previsto.
Quando un partito si china dinanzi a ricatti succedono dei danni. La storia della Prima Repubblica ce lo ha insegnato e noi non abbiamo ancora imparato nulla.
(foto di AFP)