La sempreverde attualità della serie tv italiana Boris ha scaturito – in me e non solo – molte riflessioni sul mondo (e sul Paese) in cui viviamo, in particolare: un cambiamento è possibile?

Nel contesto di una geniale leggerezza e ironia con cui vengono trattati molti temi col fine di svolgere una critica sociale al Bel Paese, all’inizio della terza stagione vediamo il regista René Ferretti (aka Francesco Pannofino) volenteroso di una svolta radicale. Si dichiara stufo di produrre le solite e mediocri fiction che piacciono al pubblico medio, di girare contenuti “a cazzo di cane”: è convinto che un’altra televisione sia possibile.

Spoiler: non lo è, e il suo progetto rivoluzionario si scopre essere soltanto un programma destinato al fallimento per rinsaldare lo status quo. Non gli resta che riprendere a girare episodi, nuovamente, “a cazzo di cane”.

Insomma, in Italia l’aria di cambiamento è spesso malvista, indipendentemente dalla qualità del soggetto messo in discussione. Nonostante le ampie critiche provenienti dalla società civile, puntualmente chi è a processo la fa sempre franca poiché rappresenta la tradizione, un’istituzione ancora molto forte nella realtà peninsulare.

Pandemia e informazione

Dopo 14 mesi dall’inizio della pandemia, che ha sconvolto le nostre vite, sul banco degli imputati siede il giornalismo italiano. Il mondo dell’informazione, come ormai è stato ampiamente appurato, non è stato in grado di affrontare con serietà la diffusione di contenuti sensibili, quali sono stati tutti quelli inerenti alla diffusione del virus e alla somministrazione dei vaccini. L’esigenza di aggrapparsi ai contenuti digitali per garantire il sostentamento finanziario delle testate le ha indotte a spostare il focus sulla quantità più che sulla qualità, rendendo il lavoro del titolista più importante di quello del giornalista (o articolista): l’esito è stato catastrofico, la sclerotica mania del clickbait ha deteriorato la già vacillante reputazione dell’informazione italiana.

Ovviamente, non è colpa della pandemia se vi è stato questo peggioramento contenutistico, bensì era una dinamica già avviata da tempo che ha voluto sfruttare l’enorme ammontare di notizie generate dalla condizione di emergenza per trarne vantaggio. Tuttavia, tutti sappiamo che fine ha fatto Icaro.

via Centro Formazione Giornalismo Radiotelevisivo

I dati parlano chiaro: gli italiani non si fidano delle testate giornalistiche. Ritengono che i giornalisti siano faziosi e incompetenti, e personalmente non li biasimo, anche considerando come alcuni gruppi editoriali facciano letteralmente il tifo per alcuni partiti oppure siano in mano ad aziende, talvolta controverse.

La pandemia ha fatto diminuire la già scarsa fiducia della popolazione nei confronti dei media, ma di questo non ne risentono solo i giornali. È chiaro, a mio dire, il legame tra la qualità del giornalismo e l’efficienza (e la stabilità) governativa: in un contesto politico dove la popolazione si fida più dei politici che dei quotidiani, è impossibile frenare la diffusione di fake news che compromettono gli equilibri sociali oltre che istituzionali.

Dunque, mi ritrovo nella posizione del buon René Ferretti a chiedermi: un altro giornalismo è possibile? Io ritengo di sì, e credo che il motore affinché ciò avvenga debba essere lo Stato.

I finanziamenti pubblici

Infatti, l’abolizione dei finanziamenti pubblici alle grandi testate è stata – personalmente – un errore colossale. La misura – fortemente voluta dai pentastellati e frutto di una propaganda politica che mira alla demonizzazione dei media – ha come effetto l’annientamento del pluralismo dell’informazione, uno dei punti cardine del concetto di democrazia liberale. L’accusa mossa dai promotori di questo enorme taglio è che i fondi pubblici renderebbero l’informazione dipendente dai dettami del governo: l’infondatezza di questa affermazione è facilmente svelabile, in quanto basta leggere una qualunque edizione del quotidiano Libero (una delle poche testate che riceve ancora finanziamenti pubblici) per rendersi conto di quanto sia insensata l’accusa di parzialità.

È stato questo taglio di fondi ai quotidiani ad aver creato il giornalismo “del clickbait, in quanto i giornali ora dipendono quasi interamente dai loro lettori e devono sfruttare ogni mezzo per avere introiti. La necessità di attirare persone presso le proprie piattaforme online è data quindi dal guadagno tramite pubblicità che i siti internet consentono, conseguenza della costante diminuzione di abbonamenti e copie fisiche vendute (dati DMS).

Se, quindi, la minor disponibilità di fondi stimola la produzione di questo tipo di contenuti, puntando tutto sulla quantità, vi è pure un altro aspetto che deteriora l’ambiente giornalistico: la difficoltà per i giovani ad accedere a questo mondo. La motivazione è piuttosto ovvia: se i conti correnti delle testate sono magri, non c’è la possibilità di assumere. Questa condizione porta i giovani a venire sottopagati e ad avere poche possibilità di svolgere un tirocinio. Soprattutto la prima condizione alimenta quel pessimo giornalismo di cui ho parlato precedentemente, in quanto la produzione di contenuti deve essere più elevata possibile per poter garantire agli aspiranti giornalisti di pagare l’affitto.

Quale futuro?

Io credo che un nuovo giornalismo sia possibile, un’informazione che privilegi la qualità del contenuto e che possa dare spazio a tutti, in particolare ai giovani. Ma questo deve partire dalla politica, da una nuova legittimazione dei media che sono stati tanto criminalizzati: non sto santificando il lavoro dei giornali, in quanto io stesso mi trovo in prima linea a criticare quando è necessario farlo, ma è innegabile il tentativo da parte della classe politica odierna di rendere secondario il ruolo dei media.

In una democrazia (funzionante) che si rispetti, i politici si occupano di fornire il materiale per le notizie, e i giornali hanno il compito di informare. La separazione dei poteri e dei compiti deve rimanere un faro in uno Stato moderno, non è ammissibile che sia messa in discussione.

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Di Andrea Miniutti

Sono Andrea Miniutti, ho 21 anni e sono laureato in Studi Internazionali presso l’Università di Trento. Sono il direttore e co-fondatorer di Fast, mi occupo di politica (principalmente italiana) e temi inerenti a mafia e stragismo. Sono un grandissimo polemico.

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