Divergenze tra Governo e Sindacati

L’incontro di martedì scorso tra Governo e Cgil ha evidenziato come tra Palazzo Chigi e la segreteria del principale sindacato italiano ci sia una netta distanza di vedute rispetto ai prossimi passi da compiere sul piano delle politiche economiche e sociali.

La grande divergenza

La frattura non è cosa nuova, sul tema l’analisi del giuslavorista Pietro Ichino, compiuta ormai un mese fa in un suo articolo (Numero 105 del bollettino Mercato del Lavoro News), anticipava i motivi di tale scontro. Dice Ichino: “In realtà questa inverosimile messa in scena indica una scelta operata nei fatti dal Sindacato, pressato e affannato dagli effetti attuali e materiali della crisi: la scelta di una politica in cui la conservazione del posto di lavoro il più a lungo possibile, e quindi il consenso a costo zero, è la stella polare, assieme ad una posizione genericamente indisponibile a discutere di riforme se non per rivendicare la sostanziale continuità delle situazioni in atto e a marcare in ogni caso un’immagine identitaria”. Sempre Ichino ha poi commentato l’approccio del sindacato: “E’ un punto di vista “revanscista” che genera inevitabilmente un atteggiamento conflittuale e non collaborativo: altro che concertazione…!”.

Volendo scendere nel particolare i punti d’attrito con la “linea Draghi” sono stati molti: dalla proroga del divieto di licenziamento e della cassa integrazione straordinaria, alla lotta contro delocalizzazioni ed investimenti stranieri, fino ad un più generale richiamo ad un ruolo più dirigista dello Stato nei confronti delle aziende italiane (e non, si veda il caso Stellantis). Questa volta però il “pomo della discordia” designato sono state le pensioni; più nello specifico il ritorno, a partire dal 2022, al regime Fornero.

Sciopero dei lavoratori delle riparazioni navali di Genova per la riforma pensionistica – crediti: Ansa

Gli strascichi di “Quota100”

Al termine del 2021 infatti, scadrà il regime di pensionamento anticipato istituito da “Quota 100, provvedimento varato dal Governo M5S e Lega, ampiamente criticato dalla stessa Unione Europea in quanto gravoso per le finanze pubbliche. “Quota 100” infatti consentiva il pensionamento anticipato, in deroga alla riforma Fornero, per chi avesse compiuto almeno 62 anni d’età e 38 di contributi versati.

Uno studio pubblicato dall’OCPI (Osservatorio Conti Pubblici Italiani) ha messo in mostra come “Quota 100” abbia riportato risultati non conformi agli annunci delle forze politiche promotrici, soprattutto sul fronte delle nuove assunzioni (ricorderete il ritornello giallo-verde “1 in pensione, 2 nuovi assunti”).

Dati alla mano:

  • Solo il 28,8 per cento di tutte le domande accolte al 2020 provengono da lavoratrici.
  • I lavoratori pubblici hanno utilizzato quota 100 più di quelli privati: il 30,9 per cento delle domande proviene da dipendenti pubblici (gestione ex INPDAP), più del doppio rispetto alla loro quota sul totale degli occupati (14 per cento).
  • In media per 100 lavoratori andati in pensione ne sono stati assunti solo 40.
  • Il costo cumulato della misura nel 2028 toccherà i 30 miliardi di euro.

Cosa vorrebbe Landini?

Ciò che Landini ha definito “inaccettabile” al termine dell’incontro riguarda in primo luogo il rientro graduale al precedente regime pensionistico, noto come legge Fornero, che prevede la fissazione dell’età pensionabile a 67 anni o in alternativa la maturazione di 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne, o 42 anni e 10 mesi per gli uomini. Contestualmente il segretario della Cgil ha presentato una contro proposta: “Quota 41”. Questa proposta, che vede il teorico supporto di Lega, M5s e le maggiori sigle sindacali (tra cui la CGIL), prevede la possibilità di andare in pensione dopo 41 anni di contribuzione indipendentemente dall’età anagrafica. 

Ma quale sarebbe, a questo punto, il peso della manovra per le casse dello Stato? Come ha stimato l’OCPI “Quota 41 risulterebbe più gravosa per i nostri conti pubblici nel medio periodo … l’INPS stima un aumento della spesa pensionistica in rapporto al PIL di 0,4 punti percentuali alla fine del 2030” che tradotto in euro rappresenterebbe un incremento della spesa pensionistica di 65 miliardi nell’arco di tempo 2022-2030.

Come la pensa Draghi

Non stupisce pertanto che il Premier abbia accolto con irritazione le proposte avanzate dalla controparte, tanto da lasciare la seduta con sostanziale anticipo e delegare al ministro della Pubblica Amministrazione, Brunetta, di terminare l’incontro.

D’altronde il pensiero di Draghi sul tema pensioni è noto da tempo e collima con le valutazioni espresse più volte nel corso degli anni dalla Commissione Europea: se l’Italia non cresce, vista l’attuale condizione debitoria, non può permettersi ulteriori concessioni alle generazioni più anziane. Il bilancio pubblico è gravato infatti da tempo dal peso dell’aumento della spesa pensionistica, che combinato a bassa crescita ed invecchiamento della popolazione italiana, moltiplica di anno in anno la necessità di attingere alla fiscalità generale per provvedere al pagamento delle pensioni attuali. Nell’ultimo bilancio l’Inps ha annunciato infatti, come nell’anno 2020 sia stata necessaria un’immissione di 86 miliardi di euro per coprire le prestazioni previdenziali (la sola “Quota 100” pesava 5,2 miliardi), come parte dei 123 miliardi effettivamente versati per la copertura economica di tutti i servizi emessi dall’ente (Fonte Il Sole 24 Ore).

I numeri cosa ci dicono?

Giunti a questo punto sorge spontaneo chiedersi se l’attuale situazione sia conforme agli standard europei o se in Italia non vi sia una tendenza a concedere un particolare occhio di riguardo alla popolazione più anziana. Un recente articolo (a cura di Pietro Mistura e Maria-Sole Lisciandro comparso su LaVoce.info) si pone lo stesso quesito, arrivando alla seguente conclusione: “spesso si giustifica l’eccesso di spesa pensionistica con il fatto che la popolazione italiana è molto più vecchia rispetto a quella di altri paesi. Ma i dati Ocse indeboliscono questa narrazione. L’Italia è effettivamente al secondo posto dei paesi Ocse per quota di over-65, tuttavia questo valore non è troppo distante da quelli di Germania e Francia. O quantomeno forse non così distante da giustificare una differenza così ampia di spesa pensionistica sul Pil”.

Le pensioni e l’economia

Per concludere, considerato che le pensioni rappresentano già il 15,8% del Pil italiano, che di anno in anno (a partire dal 2009) lo Stato ha dovuto assorbire le entrate contributive decrescenti dell’Inps attraverso la contabilità generale e che questi appianamenti contribuiscono alla crescita del debito pubblico italiano; si può concludere come le resistenze del Premier non siano immotivate.

Come ha ribadito di recente la stessa professoressa Fornero: “Le pensioni non sono una “variabile indipendente” dalle condizioni economiche generali, e in particolare dalla crescita. Non è la politica a garantire le nostre pensioni, ma il buon funzionamento del sistema economico e dell’occupazione. La crescita fornisce, attraverso l’aumento dei redditi da lavoro, la fonte per corrispondere buone pensioni ai pensionati di oggi e a quelli di domani.”

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