(Di Valentina Farinon e Camilla Mio)
La parola “lockdown” è ormai diventata ombra dei nostri discorsi e brusio di sottofondo delle nostre giornate, si aggira tra le più intime conversazioni come un ospite indesiderato onnisciente. La sentiamo addosso come fosse una muta, una seconda pelle.
Avreste tutte le buone ragioni per scioperare dal concedere ulteriore spazio a questo termine, ma resistete ancora un attimo dal passare oltre.
“Un anno di lockdown” non vuole essere un esercizio mnemonico che prevede di ripercorrere cronologicamente gli eventi dell’annus horribilis, quanto semmai un invito a vedere il bicchiere mezzo pieno di questo periodo.
È proprio dalla metafora del bicchiere che sarebbe interessante partire: come le due parti del calice -vuota e piena- coesistono ed anzi non esisterebbero senza il loro opposto, così la parola lockdown, tradotta con “isolamento”, non esisterebbe senza un complemento di allontanamento, ovvero la cosa o persona dalla quale ci si sta separando.
Da cosa ci siamo dunque allontanati? Certamente dal mondo esterno sì, ma non continuiamo a propinarci la storia dell’isolamento sociale.
Pensiamo a cos’è l’esterno nel 2020: frenesia, caos, dinamismo, corsa. Ci siamo trovati all’inizio del lockdown per la prima volta nella nostra vita a godere della possibilità di non sentirci in colpa di stare oziando (intesa alla latina), nessuno poteva puntarci il dito contro se non eravamo in azione giorno e notte. È dunque lampante il bicchiere mezzo pieno: il lockdown ci ha permesso di isolarci da un mondo esterno che forse stava iniziando a correre più veloce di noi. Quante altre volte ci siamo trovati in situazioni che ci hanno obbligati ad essere flessibili come in questa pandemia? L’essere stati colti di sorpresa e posti di fronte al non poter più vivere secondo copione ha sicuramente rappresentato un ostacolo, specialmente per noi uomini da sempre programmatori e bramosi di certezze.
Inizialmente abbiamo vissuto le settimane come un incubo- un’interruzione rocambolesca da cui poi ci saremmo svegliati al solito orario, al massimo un’ora più tardi. Abbiamo aspettato e quando contare i giorni e le conferenze stampa non ci è bastato più, siamo rimasti soli con la nostra paura, o in coppia con la nostra paura, in famiglia o chissà dove. Soprattutto in cameretta a guardare sui social cosa stessero facendo gli altri; questa volta non per giudicarli, invidiarli o spettegolare, ma per sentirci in qualche modo in umana compagnia.
Personalmente, non ho scoperto sulla mia pelle passioni che mi abbiano fatto battere il cuore in questo periodo. Ho forse cucinato di più, ho forse finito più in fretta le serie tv da 9 stagioni e perso la vista cercando di leggere fino a tardi (per poi non trovare libri avvincenti per altri 3 mesi e pentirmene!), ho fatto i miei esami. Il compitino per rimanere a galla e in tempo sulla tabella di marcia.
Se non fosse che la tabella di marcia è stracciata, i sogni non convengono e le canzoni passeranno senza poterle urlare ad un concerto. Per questo mi sembra doveroso, dopo 12 mesi di questa roba qua, arrendermi all’idea di un cambiamento radicale nella routine. Non solo adattarci, proprio cambiare. Rivedere i nostri piani in modo da non sentirci più solo bloccati, ma evoluti. Questo dunque il fine del piccolo contributo che segue; ritrovare il contatto con noi stessi ed il mondo, senza toccarlo.
Progettare il domani
Rivedendo i nostri piani settimanali, ci siamo resi conto (o almeno io e la maggior parte delle persone con cui mi confronto) di esserci sempre riempiti di nomi ed impegni che per noi contavano poco o niente o addirittura ci stressavano. Era un male? Sì, perché ci impedisce di essere onesti con noi stessi e con quello che vogliamo. No, perché il dinamismo, quando non è finalizzato solo al lavoro (altrimenti è mero sfruttamento), ci mette in contatto con realtà diverse dalla nostra e rompe la nostra bolla. Renderci conto dello statuto delle nostre giornate ci sta permettendo di liberarci, più o meno velocemente, di alcuni miti autoimposti; il successo come scopo, la necessità di essere i migliori (ma non i più felici), per citarne alcuni, ma molti di personalissimi, sogni scelti per rendere fieri gli altri o rubati ad un film in cui tutto sembrava alla fine, risolversi per il meglio.
Alcuni salotti di design ci saranno sembrati tristissimi, avremo capito quanto molto spesso i problemi che ci poniamo partano già da uno start privilegiato, quanto sia il vero divario sociale che ancora attanaglia la società umana. Ci permette di organizzarci, pensando, costruendo e progettando da soli o con altri, a partire dal nostro microcosmo, il mondo attorno a noi, che per anni ci è sembrato solo lo sfondo delle nostre avventure ed invece è, come nelle fiabe, vero personaggio della Storia. Incanalare idee in azioni, scendere in strada a darci una mano, vendere quel crop top perché non è vero che ci piace, è solo che ce l’avevano tutte.
Tessere relazioni
Stare attaccati al telefono non è per me un’opzione sana e praticabile di vita; non ci rende felici. Ma come fare quando non si può uscire per rimanere connesso ai propri affetti? Questo è stato il compromesso che ci ha portato sui social e prevalentemente in videochiamata per mesi e ci ha aiutato a non perdere di vista i volti che prima potevamo accarezzare. Questi i mezzi per sorriderci. Un aspetto su cui non abbiamo riflettuto abbastanza però è quello del dopo; non del dopo pandemia in senso lato, ma del dopo lockdown, banalmente quando la nostra regione passa dall’arancione al giallo e possiamo andare a bere una birra al bar, con chi andremo? Se volessimo conoscere qualcuno con cui uscire, dato che attaccare bottone sul posto non è più possibile da un bel pezzo, che luoghi dobbiamo visitare?
Non sto ammiccando forzatamente all’online dating e al colosso di Tinder, ma non sto neanche puntando il dito contro le coppie che lì si sono conosciute, svilendone la forza. Forse dobbiamo imparare qualcosa dalle serie tv euro-americane (ma non italiane) e dalle generazioni più giovani; darci una chance a partire da questi mezzi e spostarne poi gli sviluppi sul terreno vero e proprio, dove ci sentiamo più sicuri. Iniziare ad usare le app anche per fare amicizia e non per forza con persone lontanissime che potremo vedere solo quando sarà possibile viaggiare di nuovo, ma anche con chi non abbiamo mai veramente conosciuto bene eppure abita nel nostro stesso Comune. In questo ci vedo una grande occasione inesplorata di condivisione, di abbassamento della soglia delle nostre reciproche solitudini. Ovviamente ci vuole, per farlo, una bella dose di onestà e coraggio, ma da qualcosa dobbiamo pur ripartire o ci ritroveremo a pandemia finita con le membra così stanche da non guardarci nemmeno negli occhi, passata del tutto la voglia di metterci in gioco.
Ritrovare la propria voce
Di che cosa possiamo parlare per non parlare di covid? Rimanere costantemente aggiornati sulle nuove norme, i pareri degli esperti, il libro di Baricco sulla pandemia ci fa male, lo abbiamo capito, eppure quando abbiamo la fortuna di scambiare due parole con qualcuno, eccoci lì, ad elencare.
Eppure, pur spogliate di occasioni mondane e caricate di un peso enorme (nessuno di questi punti che vado a proporre vuole in alcun modo minimizzare la portata emotiva di questo periodo- anzi, vuole andare proprio nella direzione dell’aiuto reciproco implicito, quello più spontaneo), le nostre vite valgono. Le nostre opinioni, i nostri sogni valgono come ieri se non di più e chiedono di essere decantati ed ascoltati, scambiati con quelli di chi ci sta accanto. Alcune domande stupide che possiamo rivolgere ai nostri interlocutori e da cui possano svilupparsi comunicazioni nuove:
- Hai visto qualche bel film/serie tv recentemente?
- Dove ti piacerebbe andare quando potremo viaggiare di nuovo?
- Ci organizziamo per fare un’attività all’aperto? (cosa banalissima, ma fateci caso a quante poche volte l’avete detto/sentito dire)
- Mi consigli un libro/canzone che ti emoziona?
- Ti ricordi quella volta che… [inserire aneddoto]?
Ovviamente questo non significa che non dobbiamo aprirci con i nostri affetti riguardo a come stiamo veramente, anzi è molto importante farlo, ma per sentirci vicini e ritrovarci è necessario anche fare un passo in più, provare a condividere qualcosa di magari banale ma vivo, carico di emozioni, che ci faccia sperare nell’abbraccio di un domani migliore di cui fare parte.
Il confronto
Come sfuggire dalla nostalgia?
#poivorrei ha 75,7 mila post.
Nella sua innocenza, questo hashtag è portavoce di una delle catene psicologiche più temibili in questa situazione: il paragone. Continuiamo ad incappare, anche involontariamente, nell’errore di vivere questa realtà distopica in relazione alle dinamiche che la costituivano prima. Viviamo sostanzialmente nell’ombra della vita pre-Covid. Questo atteggiamento nostalgico è deleterio e rappresenta una fune fissata nel passato che non ci vuole lasciare, e più affievoliamo il nostro svincolarci, più essa ci separa dal fare quel passo in avanti. Pensiamo agli ancora peggio #rivorrei, che invece di invogliarci ad usare un imperativo, ci rimandano costantemente ad un vivere di ricordi. Se c’è una cosa che possiamo tutti affermare aver sperimentato è l’aver quasi palpato in questo anno di lockdown la fugacità del nostro tempo; sorge spontaneo dunque chiedersi se non è tempo si destarci dalla filosofia “l’erba del vicino è sempre più verde” ed essere onesti con noi stessi, ammettendo che nemmeno nel pre-Covid eravamo completamente soddisfatti nei momenti per i quali ora abbiamo istituito degli hashtag. Il tempo di idolatrare musei, cinema e stadi aperti è passato, e purtroppo ci siamo accorti della loro bellezza a scoppio ritardato. Sarebbe da testardi incorrere nello stesso errore e non vedere il presente come un momento fine a sé stesso, degno dunque di essere vissuto per com’è, e non in relazione a com’era un mese fa o come avrebbe potuto essere. Facendo altrimenti, rischiamo di trovarci ad avere un #rivogliamolazonagialla come descrizione alla foto che avevamo scattato mesi prima durante un momento libero dalle lamentele per essere nella medesima zona. Liberiamoci dal male del confronto con un passato idealizzato e idolatrato, e iniziamo a vivere “ora”.
Uscirne umani
Ad un anno dalla fatidica chiusura del nostro microcosmo, potremmo vedere la realtà che ci circonda come una vittoria mutilata, dove la promessa di libertà come premio ad un impegno per il collettivo, sta venendo tradita. Potremmo vedere il medesimo giuramento come la carota usata dal cocchiere per far marciare l’asino, ma non è così.
Il nostro scopo ultimo, nonchè di questo pezzo, è quello di uscirne umani. Noi tutti nutriamo il desiderio di non venire intaccati nel nostro intimo dalle difficoltà di questa situazione (mancanza di socialità, incertezze, nostalgia della vecchia quotidianità..), ed è proprio questa volontà di uscirne indenni che ci sprona a non darla vinta ad un virus.
Siamo noi i cocchieri di noi stessi.
(Foto di copertina da: Ansa.it)