Paolo Sorrentino, nel portare in sala “È stata la mano di dio”, dà vita ad un film doloroso, senza l’esigenza di essere il più complesso, ricercato e bello. Certamente il cineasta partenopeo con il suo decimo film da regista e sceneggiatore arriva all’apice della maturità artistica.
La trama

La vicenda di Fabietto Schisa e della sua variopinta- almeno fino a un certo punto – famiglia si lega a doppio filo con l’epopea sportiva del grande Napoli di Maradona grazie ad un tratto narrativo che trasforma il campione argentino in una figura quasi profetica. L’attesa per l’arrivo del Pibe de Oro viene vissuta con trasporto religioso da padri, figli, zii, da una comunità che – tramite il campione argentino e insieme a lui – vuole fuggire, almeno per 90 minuti ogni domenica, da una realtà deludente. È stata la mano di dio in meno di due ore ci racconta tutto quello che c’è da sapere sul suo autore: ci rendiamo conto da dove vengono la Roma de La Grande Bellezza, le influenze rigettate nel suo primo film “l’Uomo in Più“. Insomma, il cinema americano fatto all’europea. Nel film c’è tutto il Sorrentino che sarà: la storia del ragazzo poi uomo in tutto il suo potenziale. In un certo senso si può dire che Fabio Schisa è per Sorrentino quello che Michele Apicella è per Nanni Moretti, un “io” dove far convergere tutta la vita adolescenziale: nevrosi, tic, traumi e piaceri infantili.
Interpretazioni reali

Attorno a Fabietto troviamo comprimari dai tratti forti, distinti e, in alcune occasioni quasi caricaturali, ma tutti straordinariamente sintesi di personalità che ogni famiglia può ritrovare al suo interno. Il sempre fedele Servillo dimostra ancora di più la sua capacità camaleontica nell’affrontare e nell’immedesimarsi, Luisa Ranieri porta la solita incredibile espressività con quella delicata bellezza mediterranea che la contraddistingue. Ma su tutti, è Teresa Saponangelo nel ruolo della madre del protagonista a servire la migliore interpretazione. I caratteri della mamma, della donna del sud di quegli anni: radiosa, furiosa, furba, giocosa e con uno sguardo pronto a trasmettere un bene profondo.
Non ti disunire

Tra i tanti momenti, le tante frasi ad effetto e le battute uscite dalla bocca dei personaggi, tre parole continuano a tormentarmi. Non so bene cosa significhino, almeno non fino in fondo, o forse sono solo la chiave per scrutare all’interno di ognuno di noi e arrivarci fino in fondo. O forse sono solo un consiglio da non seguire, perché sgretolarsi potrebbe essere necessario, ma potrebbe valere anche il contrario. Non ti disunire come se in qualche modo ognuno di noi fosse un mosaico tenuto insieme da una forza interiore che resta in equilibrio su un filo fragile e sottile. La complessità come specialità della casa, in questo senso, mostra come la vita sia un percorso complesso e gli elementi quasi grotteschi del prologo e del finale sanno quasi di epifania: dobbiamo continuare a vivere nello stupore.
In odore di Oscar
Non so se arriverà la statuetta dell’ Oscar, di certo per gli americani film come il Divo o La Grande Bellezza sono molto più nelle loro corde. Tuttavia, Sorrentino arriva in sala per la prima volta totalmente sincero e scevro da estetismi messì in mezzo al film solo per piacere del bello. Il finale, con Pino Daniele in sottofondo diventa l’inizio del viaggio del protagonista, accompagnato fino a quell’istante dalla mano de dios. Inizia la fase da cineasta, inizia la carriera, inizia la costruzione di un mondo immaginario perché, dopotutto, la realtà è orrenda e l’escapismo diventa il modo più semplice per evitare di raccontare fino in fondo una Napoli inquadrata sempre all’alba o al tramonto, come in una visione. “Il cinema non serve a niente, però ti distrae” resta il grande insegnamento di un film che non termina di certo ai titoli di coda.