Sono centotrentasei le etnie presenti in Myanmar, ma sono centotrentacinque quelle riconosciute dalla Legge sulla Cittadinanza del 1982. Vi è infatti un’etnia, dall’origine dubbia, presente nella regiona più settentrionale della penisola, che non ha alcun diritto – né civile né tantomeno politico – perché non riconosciuta da quella legge. Un gruppo etnico costituito da più di un milione di persone che non possono muoversi liberamente, non possono ricevere istruzione superiore e non possono avere più di due figli. Stiamo parlando dei mussulmani Rohingya, presenti nello stato del Rakhine al confine con il Bangladesh.
I Rohingya
La questione dei Rohingya è tornata agli onori della cronaca a seguito del golpe militare avvenuto in Myanmar il 31 gennaio scorso, ma il genocidio a cui sono soggetti, da ormai più di tre anni, non è mai cessato.

Questo popolo è stato perseguitato fin dalla nascita dello stato birmano, avvenuta nel 1948 a seguito dell’indipendenza dal Regno Unito. L’aspetto dei Rohingya che da sempre ha creato più timore all’interno della popolazione birmana, a maggioranza buddhista, è la presunta volontà di creare uno stato islamico all’interno dello stato del Rakhine. E, a partire dal 1982, con la legge che considera i Rohingya alla stregua di immigrati clandestini, le persecuzioni si sono implementate in modo esponenziale.
L’apice è stato raggiunto nell’ottobre 2016, quando a seguito di un attentato dell’ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army) ai danni della polizia si è scatenata una violentissima repressione, caratterizzata da arresti arbitrari, uccisioni extragiudiziali, stupri di gruppo, brutalità contro i civili, saccheggi e distruzione di centinaia di villaggi.
Dopo un’apparente tregua nei primi mesi del 2017, favorita anche dall’intervento di organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e di associazioni per i diritti umani come Amnesty International, a partire dall’agosto dello stesso anno, a seguito di un altro tentativo di insurrezione Rohingya, la repressione si è riaccesa, più violenta che mai. Si calcola che, a un anno dall’inizio della seconda ondata di repressione oltre ventiquattromila Rohingya siano stati uccisi, diciottomila donne Rohingya stuprate. Oltre trentaseimila, inclusi donne e bambini, sono invece i Rohingya bruciati vivi come conseguenza dei più di quattrocento villaggi dati alle fiamme.
Deomocrazia, ma non troppo
Questa situazione assume dei risvolti paradossali se si pensa che in questo periodo di sanguinosa repressione a capo del governo della appena nata democrazia birmana vi era Han San Suu Kyi, paladina dei diritti umani, e vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 1991.

Questa apparente contraddizione non deve però stupirci, considerando che di fatto, come dimostrato anche dal golpe appena avvenuto, il potere è sempre stato nelle mani dei militari, che grazie alla Costituzione redatta nel 2008, se da un lato hanno lasciato spazio all’affermarsi della democrazia, dall’altro hanno fatto in modo di mantenersi a capo di tutti i ministeri chiave, in modo da riuscire, come appunto sta succedendo, a sfruttare il primo momento di crisi possibile (in questo caso causato dalla pandemia) per reimporre la loro dittatura militare, già al governo del paese dal 1962 al 2011.
Il processo
Nel 2019, grazie a una risoluzione sottoposta dal Gambia all’International Court of Justice in cui si accusava lo stato birmano di genocidio e pulizia etnica ai danni dei Rohingya, è iniziato un processo nei confronti del Myanmar, difeso davanti alla Corte di Giustizia internazionale delle Nazioni Unite dalla stessa Suu Kyi.
La Corte non è stata però in grado di decidere se il Myanmar fosse responsabile del genocidio, affermando tuttavia che lo stato dovesse tutelare la popolazione Rohingya e conservare tutte le prove di un eventuale genocidio.
Anche a seguito di questa sentenza le cose sembravano poter andare per il meglio, come lasciavano sperare i segnali di apertura dati dal governo birmano con le direttive presidenziali del gennaio e dell’aprile 2020 che stabilivano in primo luogo la fine del genocidio, in secondo luogo che le autorità competenti erano responsabili di garantire che chiunque fosse sotto la loro attività non commettesse genocidio e infine l’imposizione da parte del governo centrale allo stato del Rakhine, di conservare le prove di un eventuale genocidio.
Questa ondata di ottimismo, però è andata via via diminuendo, dapprima a causa dell’imperversare della pandemia anche in questa zona, a tal proposito e bene ricordare che l’India, diretta confinante del Myanmar, è stato uno degli stati più colpiti al mondo dal COVID-19. E in seguito per via del recente golpe dei militari. E, ad oggi, il destino dei Rohingya sembra più oscuro che mai.
Antonio Gutierres, segretario delle Nazioni Unite, ha usato parole forti per definire questo popolo: “one of the most persecuted minorities” (“una delle minoranze più perseguitate al mondo”), e anche: “amongst the world least wanted” (“i meno voluti al mondo”). Ma per parlare di questo popolo utilizzerei una definizione ante litteram, adottando quella che Hannah Arendt diede agli ebrei apolidi ne “L’origine del totalitarismo”:
“Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, schiuma della terra”
(Foto di copertina da. Arabnews)