Il problema del Reddito di Cittadinanza non sono i poveri, ma l’assenza di un piano nazionale per la creazione di posti di lavoro
Molto si è discusso in quest’ultimo periodo sulla riforma del Reddito di Cittadinanza, la battaglia-bandiera dei pentastellati. Certo, questa misura – per come è stata impostata – fa acqua da tante parti, ma l’idea di un reddito minimo per le fasce più disagiate è sicuramente una lotta giusta, soprattutto nell’ottica del (lontano, forse utopico) raggiungimento di un reddito minimo universale. Quindi, il problema del RdC non risiede nel concetto fondante, che riteniamo più che ragionevole (anche se non innovativo, vedasi il Reddito di Inclusione), bensì nella cecità sul fronte lavorativo.
Infatti, solo un decimo dei percettori – in questi 3 anni – è riuscito a trovare lavoro. La vulgata vuole che si identifichino come “fannulloni” coloro che rimangono disoccupati, ma la realtà è ben diversa: il lavoro non c’è. Oltretutto, consideriamo che soprattutto le fasce più anziane in età lavorativa trovano ulteriori difficoltà a causa della loro età, spesso vedendosi superate da giovani facilmente sfruttabili (soprattutto in termini salariali) dai datori di lavoro.

Una lotta tra poveri
Questa dialettica tende a demonizzare le fasce più deboli della nostra popolazione. Attualmente, è in atto l’aggravamento di una spaccatura sociale che vede i poveri essere progressivamente e ulteriormente emarginati, abbandonati pure dalla cosiddetta classe media. Insomma, si sta scatenando una guerra fra poveri e meno poveri dove i ricchi (e gli agiati) tessono il campo dello scontro. Una guerra, tra l’altro, che vede anche contrapposti i percettori dei circa 700 euro di sostegno statale e chi ha un lavoro e guadagna un ammontare simile. Eppure, il dito va puntato verso il mercato del lavoro, non verso i percettori del RdC.
Infatti, la lotta per il salario minimo dovrebbe essere parallela all’istituzione di un fondo di sostengo per le fasce più povere. Consentirebbe, soprattutto ai giovani, di ottenere paghe adeguate alle ore lavorative, rendendo il RdC tutt’altro che un’opzione da tenere in considerazione. Perché, diciamocelo chiaramente: è anche normale, rebus sic stantibus, che un giovane preferisca percepire il Reddito piuttosto che guadagnare 400 euro mensili per 60 ore lavorative settimanali. E non usate la scusa del “fare esperienza”, perché un salario da fame ti fa solo “esperienziare” una vita di stenti.

La questione giovanile
Certamente, non neghiamo l’esistenza dei cosiddetti “furbetti del Reddito” e dei “fannulloni”, tuttavia i controlli hanno dimostrato che essi rappresentano la minima parte di chi riceve il sostegno. Oltretutto, soprattutto per quanto riguarda i giovani, la questione è molto complicata: come riporta Open, un percettore su tre è giovane, ma gode del beneficio in quanto membro di un nucleo famigliare e non come richiedente autonomo. Insomma, è deducibile che il problema risieda nelle scarse possibilità (economiche) per i giovani di abbandonare la casa dei propri genitori.
Dunque, il RdC – così com’è fatto – è sicuramente da modificare, ma non da eliminare. Sono necessari interventi nel mondo del lavoro da una parte e, dall’altra, misure a sostegno dei cosiddetti neet (Neither in Employment or in Education or Training) affinché la loro uscita dal nido genitoriale sia facilitata.
Ribadiamolo ancora una volta: il problema non sono i poveri, ma chi non si prende cura di loro.