Jack Kerouac poems non è una ricerca gettonata su Google, ma nel caso vi capitasse di chiedervi se ci sia una citazione utilizzabile per una foto di un viaggio attraverso gli States, provateci. Troverete esattamente quello che cercate, frasi sull’amare la vita, ridere, carpe diem tradotti e non, firmati dallo scrittore più vagabondo di tutti. Il mio amore e rispetto per questa pover’anima mi obbligano a raccontarvi la verità: non sono quelle le poesie di Jack. Sono perlopiù parafrasi ritradotte, dialoghi decontestualizzati, ci sono addirittura canzoni d’amore degli anni 90’. Se però, già che ci siete volete saperne di più, possiamo andare più in profondità.
Conosciamo Kerouac soprattutto per On the road (1951), manifesto indebito di una generazione, intriso di speranza, paesaggi ed emozioni fortissime, racconto autobiografico di una corsa lungo gli Stati Uniti, solo o in compagnia di Neal Cassady (nel romanzo chiamato Dean, altrove Cody). Una prova di amicizia e disillusione entrata nel cuore di molti dei suoi lettori, ma non uniformemente valutata, a cui deve un successo folgorante, tale da costringerlo a disprezzare l’opera pochi anni dopo, non rivedendosi nel paradigma culturale cucitogli attorno.
Jack Kerouac viene infatti rapidamente rivendicato il padre della beat generation (generazione di protesta del secondo dopoguerra); una definizione, quella di beat destinata a generare letture fuorvianti delle sue intenzioni; vi si può rivedere il senso mistico di beato, quello musicale di ritmo (entrambe componenti chiave della sua poetica) o come propone Fernanda Pivano, profonda conoscitrice della letteratura americana e a cui dobbiamo l’ingresso nell’orizzonte culturale italiano dello stesso Kerouac, di Allen Ginsberg e Gregory Corso, il termine beat designa il senso di sconfitta coinvolto nella parola. Per comprendere a che cosa si riferisca dobbiamo prestarci ad un’operazione storica banale: calare il “movimento” nel contesto – sono i decenni del benessere per tutti, dell’avvento della televisione, della stampa generalizzata, del piccolo borghese trasformato in un consumatore vorace dalla pubblicità.
In un precedente pezzo ho esaminato I persuasori occulti di Vance Packard, pubblicato nel 1957. Ecco, sono quegli anni lì.
La critica di fatto ha la colpa di aver troppo spesso etichettato questi autori ai margini dei manuali, consegnandoli ad una spiegazione spiccia, priva di spessore.
Non dispongo i mezzi per trattare il tema in maniera esauriente, anche questo è solo un assaggio bisognoso di precisazioni. Basti sapere che tutta la sua produzione sia prosastica è intessuta di un profondo misticismo, in parte derivante dal suo cattolicesimo, in parte dalle filosofie e religioni orientali a cui si accosta nel corso della sua parabola.
È una continua ricerca di Dio. Andando verso la luce, si prende il tempo di indagare a fondo la gente e di mescolare la sua voce a quella dei passanti, delle insegne al neon, del jazz, ma anche della letteratura alta. L’ispirazione gli viene da Thoreau, Blake, Whitman, Thomas Wolfe, Dostoevskij. Racconta la sua America e la sua anima tormentata, senza indugi patetici.
Si approccia alla poesia già da giovanissimo, dice di aver deciso a 17 anni di diventare scrittore, influenzato da Sebastian Sampas e forma con lui un gruppo di appassionati di letteratura e teatro – si chiamano i Prometeici. La scelta di Prometeo come emblema è già di per sé significativa; il legame con la Grecia ed il mito rimarrà sempre molto forte. Non di meno il celebre mito di Prometeo può assurgere da paradigma interpretativo: un semidio che ruba il fuoco dal cielo per restituirlo agli uomini – portatore di conoscenza, sofferenza, punito dagli dei. Insomma, un poeta.
Un tipo come lui, solo a guardare gli altri vivere, guardato a sua volta, consumato dalla folla, seduto ai bordi di una stazione a sognare Dio e l’eternità, a vederla nei gesti comuni e riportarne le sensazioni pazientemente. Jack Kerouac era disperato, soffriva per sé e per gli altri, portava enormi pesi e per questi fa una tragica fine, non solo per il consumo spregiudicato di alcolici.
La sua anima poetica è definita da Ginsberg capacità di riprodurre direttamente sulla pagina pensieri e suoni della sua mente. Il suo stile è quello della prosa spontanea nei romanzi, sempre al confine con l’espressione poetica, venuta allo scoperto negli haiku, le ballate, ma soprattutto nei blues – genere che inventa e di cui ci offre prova esemplare con Mexico City Blues e nel Libro dei blues.
Dentro ci sono ritmi lontani, non limitabili alla pratica jazz, di cui altresì riproducono il ritmo frenetico e la tendenza all’improvvisazione, alla violenza fonica.
La sua poesia è ricca di neologismi, fonemi in lotta tra di loro, citazioni salmodianti, oscillazioni tra lingue diverse. Anima in un foglio, sempre sapientemente nel caos, controllata. Le perifrasi lunghissime portano lontano, hanno occhi e cuore collegati.
I temi sono onesti, come nei romanzi, se non di più; la dolorosa esperienza familiare, l’attaccamento alla madre, alla tradizione della città natale, i viaggi, la solitudine, il mondo accademico (Kerouac ha frequentato la Columbia University), la letteratura americana e non, i compagni di viaggio, Dio, Buddha, il mistero di essere al mondo, l’alcol e la dipendenza, l’autodistruzione.
Io ci vedo un amore universale fortissimo, magari mi sbaglio.
Riproduco in duplice versione, originale (si apprezzano maggiormente gli accorgimenti stilistici) e in traduzione:
121esimo refrain (da Mexico City Blues)
Everything is in the same moment
It doesn’t matter how much money do you have
It’s happening feebly now
the works
I can taste the uneaten food
I’ll find
In the next city
in this dream
I can feel the iron railroads
like marshmallow
I cant tell the difference
between mental and real
It’s all happening
It wont end
It’ll be good
The money that was to have been spent
on the backward nations
of the world, has already been
spent in Forward Time
Forward to the Sea,
And the Sea comes back to you
And there’s no escaping
When you’re a fish
The nets of summer destiny
Tutto accade nello stesso momento
Non conta quanti soldi hai
Sta accadendo flebilmente adesso
Con annessi e connessi
Riesco a pregustare il cibo intatto
Che troverò
Nella prossima città
In questo sogno
Riesco a sentire le rotaie di ferro
Come marshmallow
Non posso distinguere
lo psichico dal reale
Sta succedendo tutto
Non finirà
Sarà bello
I soldi che c’erano da spendere
per le nazioni arretrate
del mondo, sono già stati
spesi Tempo Avanti
Avanti verso il Mare
E il Mare torna indietro verso di te
E non c’è modo di sfuggire
Quando sei un pesce
Alle reti del destino estivo
In chiusura, un pezzo dal 31refrain (da Mexico City Blues):
[…]
Convulsive writer of Poems
And dialog for Saints
Stomping their feet
On the Pirandelloan stage
Autrice convulsa* [si fa riferimento a Four Saints in Three Acts di Gertrude Stein] di poesie
E dialoghi per Santi
che battono i piedi
sul palcoscenico pirandelliano.
Bibliografia
Kerouac J. Corsi C. (1977) , Refrain in Quaderni della Fenice 21,Parma: Guanda,
Pivano F. (1965), Introduzione a Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg, Milano: Arnoldo Mondadori Editore
Ead. (1997), Viaggio Americano, Milano: Bompiani
I blues di Jack Kerouac (2019), a cura di Marilène Phipps- Kettlewell, Milano: Mondadori Libri S.p.A
Fonte: The New Yorker