Io non mi sento bella.
Non mi ci sono mai sentita, complice forse anche il fatto di essermi nascosta fin dalla prima adolescenza in vestiti larghi, anfibi alti e capelli arruffati. Un po’ di proposito, un po’ no.
Al mattino prendevo il bus che era ancora buio, la sera tornavo a casa con il sole già sceso, dopo ore di laboratori o attività extrascolastiche. Non è facile fare un pezzo a piedi, stare in autobus da sole.
Sono cresciuta in un piccolo paese, il catcalling non è un morbo cittadino, è un morbo sessista.
Siamo un momento molto delicato, il web ci sta aiutando a riflettere su questo fenomeno avvicinando le nostre storie, aprendo un dialogo. Dobbiamo approfittarne e sdoganare tutti i miti su questa pratica incivile e pericolosa davanti alla quale non possiamo più stare zitti.
Googlando catcalling (su browser italiano) appaiono una serie di articoli la cui tesi di fondo è che sussista un labile confine tra complimento e molestia verbale. Sono cazzate.
L’unico risultato a cui portino articoli del genere, spacciandosi per spiegazioni dettagliate e nascondendo invece una bella dose di maschilismo nostrano, è di allontanare ancor di più il giorno in cui la legge del nostro Paese interverrà a sostegno delle vittime. Sono apparse statistiche, citazioni dall’Accademia della Crusca, hashtag e mobilitazioni social, ma i nostri amici non ci credono, i nostri genitori dicono che tutto sommato queste cose sono sempre successe e comunque il termine non lo pronunciano giusto.
Questo è in sé un dato molto interessante; in Italia non abbiamo un termine per definire questo reato (perché un reato deve essere), usiamo il generico ed anglofono catcalling.
In Europa
I nostri vicini francesi dicono harcèlement de rue (qui un bel Tedx in lingua e sottotitolato) e lo puniscono dal 2018.
Il testo fu approvato con 92 voti a favore e nessun contrario. Il Belgio, il Portogallo ed i Paesi Bassi hanno seguito l’esempio. In Germania è stata lanciata lo scorso anno una petizione che ha riscosso molto successo, al fine di introdurre una legislazione apposita.
E in Italia?
In Italia ci insegnano a rimanere calme, a camminare velocemente e non voltarci. A non uscire la sera tardi ed avere sul telefono almeno tre contatti di emergenza.
Una legge non risolverebbe magicamente il problema, lo sappiamo benissimo, ma lancerebbe un segnale forte. Serve attenzione da parte delle istituzioni ed una presa di posizione sia politica che sociale, dal mondo del giornalismo (becero quasi sempre) alle aule scolastiche deve levarsi la richiesta di una strada più sicura, in cui non vengano tollerati questi atteggiamenti.
Pensare di essere a posto solo per il fatto di non aver mai fischiato, urlato, fotografato o tentato di uscire con una ragazza approfittando del suo passare da sola per strada, non è abbastanza. Stare a guardare, non è lotta. Ascoltarci raccontare l’episodio che ci ha lasciate spaventate, insicure, incazzate e poi aspettarci che ci ridiamo su davanti ad un drink, non va bene.
Continuare a scrollare le news su questo fenomeno e farne dei meme da condividere con amici e amiche in cui si prendono in giro le vittime insultandole, denigrandone l’aspetto fisico o sostenendo che vogliano solo attirare l’attenzione, è essere parte del problema, farlo crescere a dismisura.

Nel nostro paese non c’è una parola per definire questo genere di molestia, non c’è una legge che la punisca, non se ne parla nelle scuole, nei luoghi di lavoro, anzi questi diventano spesso terreni fertili per lo sviluppo di comportamenti devianti legati alla violenza di genere.
In famiglia, ci dicono di evitare certi luoghi, certi orari, come se questi atteggiamenti dovessero d’ora in poi, alla nostra entrata nel mondo, diventare automatici, costituissero parte intrinseca di quello che è lo stare al mondo e doverci sopravvivere. Nessuna scelta, solo correre e abbassare la testa. Farci accompagnare a casa da qualcuno.
Possiamo auto-educarci alla comprensione, intervenire in prima persona. A forza di richiedere un cambiamento, di fare rumore, qualcuno ascolterà. Quante generazioni dobbiamo sprecare ancora?
Ci rincorrono, ci guardano, soli o in gruppo, ci toccano; provano a prenderci.
Non ci stanno dicendo che ci vogliono bene, che siamo belle, che ci accettano. Non illudiamoci; non siamo migliori della nostra amica perché ci fischiano, non siamo più importanti se ce ne freghiamo, se mandiamo sorrisini all’aggressore o prendiamo in giro chi si batte.
Ci stanno dicendo che vogliono averci come proprietà, nulla di più.
Se succede per strada, quando passiamo oltre ci insultano. Se succede a scuola o a lavoro, ci dicono che stavano scherzando.
Il sessismo non è uno scherzo, la violenza di genere fa ridere solo l’oppressore.
L’oppresso che lo minimizza, lo normalizza, accetta che in una discussione venga buttato tutto in battuta, si sta mordendo la coda da solo. Peggio ancora chi tenta paragoni anacronistici con la cultura del passato, in cui la donna veniva ritratta sui manifesti mentre puliva casa in attesa di poter servire il consorte.
Parlare di progresso non è investire in Amazon, smettere di leggere i giornali di carta e ordinare cena fuori tutte le sere. Il progresso non è un servizio, è un movimento.
E io, come donna, ho tutto il diritto di proseguire per la mia strada, senza che qualcuno tenti di trascinarmi indietro per un braccio.
- Per i più giovani (ma anche per chi come me ama il teen drama) che vogliano avvicinarsi a queste tematiche, consiglio la visione di Girl Power- La rivoluzione comincia a scuola, film di Amy Poehler, uscito su Netflix lo scorso 3 marzo. Commedia dal tono leggero, ma molto realistica. Una boccata d’aria fresca nel vento del cambiamento, a cui è chiamata a prendere parte anche la componente maschile della società (e il film lo mostra molto bene- giusto con i giusti).