Ben ritrovati nella rubrica settimanale che pone al centro il movimento culturale più dominante degli ultimi decenni: l’Hip-Hop. In particolare, cercheremo in queste diverse puntate di capire come un movimento inizialmente minoritario, che si faceva portabandiera della situazione “black” – prima a NYC e poi negli interi Stati Uniti – sia riuscito ad arrivare alle vette delle classifiche di praticamente tutto il mondo.

Perfino chi mastica un po’ di musica rap, pensando alle origini del genere, si troverà in difficoltà a nominare rapper famosi in attività prima degli anni ’80. In realtà, un ascoltatore medio si troverebbe in difficoltà anche a trovare nomi precedenti agli anni ’90. Ciò non punta a scoraggiare la conoscenza del genere di nessuno, anzi: ci fa capire come questo genere sia cresciuto esponenzialmente solamente a partire da 30 anni a questa parte

Negli anni ’70 la situazione a New York City è il perfetto terreno fertile in cui viene piantato il primo seme dell’Hip Hop. Nel decennio precedente, infatti, furono abolite le famose leggi razziali che avevano segnato troppo profondamente la mente americana per essere dimenticate tramite una sola abrogazione. Alla comunità nera non fu mai data una vera possibilità di integrarsi con il resto della società, tanto che spesso la vita dei neri nelle grandi città si svolgeva nei ghetti: lì vivevano, lì lavoravano, lì crescevano e morivano. Le amministrazioni cittadine, compresa quella della Grande Mela, decisero di abbandonare completamente quei territori, considerati improduttivi. Questa politica dell’indifferenza non fa altro che alimentare il clima di violenza e d’illegalità che si viveva nei ghetti, che si rifletté sull’economia: il patrimonio immobiliare del Bronx vede sempre meno gente disposta ad abitare un quartiere così devastato dove dominavano miseria, analfabetismo, illegalità e delinquenza. Un vasto gruppo di edifici abitativi (lasciati disabitati dai precedenti affittuari, migrati verso quartieri migliori) rimase abbandonato per lunghi periodi di tempo, diventando veri e propri quartieri generali e per le gang di strada, in grado di sostenersi autonomamente grazie ai ricavi dello spaccio di droga e altre attività illegali. Il Bronx diventa così l’emblema di tutto ciò che non va in America, guadagnandosi il triste premio di diventare il distretto malfamato per antonomasia. 

Visti da fuori, i ghetti sembravano agli occhi dell’America borghese (o meglio, bianca) dei luoghi la cui esistenza era obbligata, necessaria per mantenere i criminali e la parte malsana della società in isolamento. Ma per chi ci nasceva, era difficile capire quanto sbagliato fosse il modello di vita a loro proposto; ciò non toglie che fosse l’unico a loro mostrato come effettivamente raggiungibile. Il quartiere diventa la famiglia estesa di chiunque abiti nel «block», motivo che porterà alla creazione di diverse bande criminali, che si contendevano il controllo dei blocchi circostanti. 

In un ghetto così limitante è necessario, però, anche l’intrattenimento. Non ci si sofferma spesso sull’utilità del settore dell’entertainment, anche se forse la quarantena appena passata ci ha fatto ricredere a riguardo. Il settore dell’intrattenimento non esisteva nel ghetto, ma era necessario. Dopo stremanti settimane a lavorare – chi legalmente e chi non, rischiando sempre di essere vittima della giustizia e la vita – il week-end il block si riunisce per strada, a festeggiare nei «block party». Qui, la musica è materia dei dj, quasi tutti di origini caraibiche o latino-americane: i suoni esotici si fondono con le sonorità cittadine della metropoli quando due dischi vengono fatti girare insieme. L’obiettivo principale era uno: far ballare la gente. 

Una tecnica in particolare era in voga nelle isole caraibiche da qualche anno: il «toasting», ovvero lo stile musicale che consisteva in un parlato ritmico sopra ad una base costante. Nasce il rap, luogo di nascita: NYC. Questo è anche il motivo per cui sono pochi i nomi rinomati dei primi anni dell’hip-hop, poiché erano essenzialmente artisti di quartiere, che rappavano per far ballare il vicinato. 

I party si espandono, e dalle feste di quartiere dei primi anni la folla si sposta in zone che possano ospitare più persone, come i parchi. Si credeva inizialmente che il rap fosse destinato a restare una cultura cittadina, peculiare di New York, ma l’estensione del movimento è inarrestabile e in pochi anni si espande nelle città vicine. Sarà con l’inizio della registrazione dei pezzi che il rap diventa un genere prima nazionale e poi globale. Il primo singolo ad essere considerato mainstream è pubblicato nel 1980 ed è “Rapper’s Delight” dei The Sugar Hill Gang, e ad un ascolto anche non troppo attento ci si rende conto come la traccia non parli di chissà quali tematiche sociali come ci si aspetterebbe dalle prime canzoni del genere. Ma è proprio l’orecchiabilità del pezzo e il suo mood casual, allegro a portarlo alle orecchie di tutta America. 

La strada dell’Hip-Hop è solamente iniziata, e prima di essere riconosciuto come genere musicale nato per restare, dovrà ancora dimostrare molto. Alla settimana prossima, con il secondo episodio della rubrica.

(Foto di BusinessInsider)

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