La guerra in Etiopia ha da poco compiuto due anni. A novembre del 2020, infatti, il primo ministro etiope Abiy Ahmed diede il via al conflitto tra il governo centrale e la regione etiope del Tigrè con l’obiettivo di rimuoverne le autorità locali. Il mese scorso è stato raggiunto un accordo tra le due parti belligeranti, ma è solo l’inizio di un processo di pace per cercare di porre fine ad un conflitto che finora ha provocato una situazione disastrosa dal punto di vista umanitario e maggiore instabilità nel Corno d’Africa e nel paese.

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Le cause del conflitto

Ma procediamo con ordine. L’Etiopia contiene al suo interno più di 90 gruppi etnici e le tensioni fra questi non sono una novità. Il primo ministro in carica Abiy Ahmed fa parte alla popolazione oromo, il gruppo etnico più numeroso del paese, mentre la popolazione del Tigrè appartiene appunto all’etnia tigrina e rappresenta soltanto il 6% degli etiopi.

Queste divisioni etniche si intrecciano ad una più generale lotta per il potere fra l’élite tigrina e il governo centrale di Abiy: il partito dominante del Tigrè, il ‘Fronte di liberazione del Tigrè’ (TPLF), è stato per decenni la forza politica più influente del paese e dominava di fatto il governo federale etiope, nonostante rappresentasse una piccola percentuale della popolazione, perpetrando inoltre discriminazioni verso etnie molto più numerose, come quella degli oromo.

Con l’ascesa al potere di Abiy nel 2018 però il TPLF è stato progressivamente escluso dai centri di potere nazionali. Il primo ministro iniziò da subito a mettere in atto un processo di profonda riforma e democratizzazione del paese, oltre a siglare la pace con la confinante Eritrea; questo operato gli valse il premio Nobel per la pace nel 2019.

Ma da lì a poco il malcontento verso il suo governò è venuto fuori prepotentemente. Abiy ha fatto leva sull’unità nazionale che trascendesse le istanze etniche e ha cercato di creare una forte identità nazionale etiope, attirandosi molte accuse di autoritarismo, soprattutto da parte dei tigrini. Alcuni governi regionali, tra cui quello del Tigrè, hanno così visto minacciata la loro autonomia e le spinte separatiste tigrine si sono intensificate.

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed riceve il premio Nobel per la pace nel 2019 (credits: FarodiRoma)

Il casus belli si può identificare nel rinvio da parte del governo delle elezioni previste per l’agosto del 2020, ufficialmente a causa della pandemia, ma secondo i critici di Abiy con l’obiettivo di evitare la sua possibile sconfitta elettorale. E nonostante il divieto, nel settembre dello stesso anno il governo regionale del Tigrè decise di organizzare le elezioni locali. La situazione degenerò presto e nei primi giorni di novembre 2020 l’esercito federale diede il via al confitto muovendo verso il Tigrè, sperando in una rapida vittoria.

Da lì si è assistito ad un susseguirsi di ribaltamenti di fronte, con le truppe governative che sono velocemente riuscite a conquistare la capitale della regione, Macallè, ma che sono poi state respinte indietro dall’esercito tigrino, il quale è arrivato molto vicino alla capitale etiope Adis Abeba ma è a sua volta stato costretto alla ritirata. Una tregua indetta a marzo di quest’anno è durata solo cinque mesi e ora la situazione sul campo pare in stallo.

Le conseguenze disastrose sulla popolazione

Le conseguenze più drammatiche di questo conflitto si sono riversate sulla popolazione civile. In questi due anni di guerra si sono moltiplicate le accuse e le testimonianze di violazioni dei diritti umani e crimini di guerra da parte dell’esercito del governo centrale ai danni della popolazione tigrina, anche nei confronti di anziani, donne e bambini. Molte associazioni sul territorio hanno denunciato il ricorso allo stupro di massa come arma di guerra e si sono registrate violenze sessuali diffuse e sistematiche. Queste azioni sono state compiute principalmente dalle forze speciali della regione etiope di Amhara, che ad inizio guerra avevano preso il controllo del Tigrè occidentale, con il benestare del governo federale.

Le indagini di Amnesty International e Human Rights Watch hanno mostrato come i crimini contro l’umanità siano continuati nei mesi e che le milizie abbiano perpetrato esecuzioni sommarie, imprigionamenti illegittimi, torture, deportazioni forzate, costringendo centinaia di migliaia di tigrini a migrare nei paesi confinanti, per non parlare dei trattamenti inumani riservati ai prigionieri di guerra.

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Come spesso accade in questi casi, le violenze contro la popolazione non sono unidirezionali. Anche le forze tigrine sono state accusate di massacri di civili e stupri di massa nella loro avanzata verso la capitale Adis Abeba ed è stato inoltre riportato come abbiano ucciso centinaia di cittadini di Amhara e lavoratori stagionali presenti nel Tigrè occidentale, in particolare nella città di Mai Kadra.

Le atrocità sono potute accadere anche a causa delle restrizioni imposte dal governo di Abiy alle comunicazioni e al lavoro di indagini indipendenti, giornalisti e operatori umanitari, tanto che sono avvenuti arresti di giornalisti anche nella capitale Adis Abeba.

La carestia alimentare, aggravata nel 2022 da una siccità durissima, ha reso la situazione ancora più drammatica. Le forze che combattono i tigrini hanno deliberatamente bloccato l’afflusso di cibo, medicine e aiuti umanitari nel Tigrè e saccheggiato il raccolto e il bestiame con l’intento di provocare la fame nella popolazione della regione, atti in cui è stata dimostrata anche la complicità dell’esercito dell’Eritrea, paese alleato del governo federale etiope nel conflitto. Quest’estate il World Food Program riportava che circa il 90% dei sei milioni degli abitanti del Tigrè aveva bisogno di aiuti umanitari e secondo l’ONU sono stati dovuti portare aiuti a 17 milioni di persone.

Verso la pace?

Tutto questo porta molti analisti a parlare senza timore di pulizia etnica e genocidio, si stimano finora mezzo milione di morti fra militari e civili e gli sfollati interni sono milioni. Gli appelli ad un intervento da parte di attori internazionali non sono mancati. Tuttavia, organizzazioni internazionali come l’Unione Europea, l’Unione Africana e le Nazioni Unite hanno poteri limitati in situazioni di crisi come questa, sia in termini di indagini sui crimini di guerra che di aiuti umanitari concreti. Va ricordato comunque che l’ONU è presente sul territorio etiope con gli interventi umanitari del World Food Program; un’iniziativa militare da parte delle Nazioni Unite invece è più complicata e questionabile, per via dei limiti intrinseci e di approccio alle crisi dell’Organizzazione.

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Sono comunque arrivati dei tentativi di pace. Ad inizio novembre scorso è stato trovato un accordo di cessazione delle ostilità fra il governo etiope e i rappresentanti delle forze tigrine. I colloqui si sono tenuti in Sudafrica (a Pretoria) con la mediazione degli Stati Uniti e sotto l’egida dell’Unione Africana. L’accordo prevede la cessazione permanente dei combattimenti e il ripristino dell’invio di aiuti umanitari al Tigrè, oltre alla preservazione dell’integrità territoriale della regione, il ristabilire dell’ordine costituzionale e la ricostruzione delle infrastrutture.

L’intesa è stata accolta positivamente dalle parti in causa ma l’ottimismo deve essere cauto. Il segretario dell’ONU Guterres l’ha definita una «prima tappa gradita» e l’ex presidente nigeriano Obasanjo (uno dei mediatori dei negoziati) ha specificato che «non è la fine del processo di pace, ma solo l’inizio». Inoltre, l’Eritrea, paese coinvolto nella guerra a fianco del governo etiope, non era presente ai colloqui di pace in Sudafrica. Ora l’applicazione dell’accordo dovrà essere supervisionata dall’Unione Africana.

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