Ora, a cielo grigio e pandemia (ancora) in corso, ci sembra forse difficile immaginare una domenica come quella tratteggiata sapientemente da Vittorio Sereni (1913-1983), poeta chiave del novecento italiano e cantore, tra le altre cose, di quello che è stato per il nostro paese il secondo dopoguerra.

Perviene all’esperienza poetica da giovane, sui banchi di scuola, tra Brescia e Milano, dove si ritrova presto inserito nell’ambiente culturale, vivace ma problematico, della città, entrando a far parte di Corrente di Vita Giovanile come redattore, insieme a Del Bo, Lattuada, De Grada e Treccani. La rivista rifiutava il totalitarismo e difendeva i diritti di una cultura libera e viva e fu stroncata ben presto da Mussolini. L’interesse del giovane per la poesia non si spegne e non si spegnerà nemmeno durante i lunghi periodi di prigionia scontata tra l’Algeria ed il Marocco, di cui troviamo riscontro poetico a partire Diario d’Algeria (1947, Vallecchi).
Per sviluppare la riflessione sul che cosa sia rimasto, per i reduci come lui, giovani ma privati della sfida con la storia (nel campo di prigionia arrivano i racconti della Resistenza, ovattati ed allo stesso tempo quasi epici, il poeta ed i suoi compagni non possono parteciparvi, possono solo attendere) e su chi siano i vincitori e vinti di questa guerra Sereni impiega una quindicina d’anni, tornando ripetutamente sopra i testi al fine di riprodurre in parole e suoni i moti del suo animo; l’ansia, la paura, ma anche la gioia e l’amicizia come unici valori positivi, slanci vitalistici verso un mondo immaginato e ritrovato in certe lontane competizioni sportive, in certi sguardi ricambiati per strada e portatori di un segreto altro.
Il poeta ce lo racconta ne Gli strumenti umani, raccolta di 52 poesie, uscita nel 1965 per Einaudi.
Ad aprire la sezione “Il centro abitato”, troviamo Nel sonno- una poesia lunga in cui il suo autore dialoga con se stesso e scende a patti con la scoperta tardiva della Resistenza come difesa della libertà dell’uomo (Tardi, anche tu li hai uditi/ quei passi che salivano alla morte indrappellati), ricorda i partigiani (cresimandi della storia) e soprattutto manifesta la delusione delle speranze di riscatto, di giustizia sociale, dei valori che pur da lontano, sentiva di condividere con chi ha lottato per l’autodeterminazione.
L’Italia si offre ai suoi occhi come uno spettacolo qualunquista, ipocrita ed immemore delle lotte appena trascorse, un’Italia contenta di se stessa ed avvezza a quel poco che basta per tirare avanti, con i suoi riti consumistici e vacanzieri, in attesa del tramonto.
L’idillio è spezzato, ma non drammatico, semmai permeato di preoccupazioni concrete, narrativo. I giovani approfittano per divertirsi della demenza del vecchio del paese; ecco una scena di violenza gratuita, uno scontro tra vinti, mentre la borghesia capitalista gode dei suoi poteri, messe fuori gioco le istanze socialiste.
Nella quinta parte del componimento, il poeta si ritrae e del suo giardino commenta le moto che sfrecciano portando l’estate, le vittorie sportive, rituali domenicali al termine dei quali ritorna la domanda, ansiosa e disillusa, “E dopo, che fare delle domeniche? Aizzare il cane, provocare il matto…”.
Il commento di fronte al galoppare del conformismo e della disperazione mascherata da progresso e ricchezza non può che essere carico di sconforto e rabbia; “Non lo amo il mio tempo, non lo amo. ” (V, v.9).
Riporto le sezioni IV e V del testo, sulle quali si è concentrata maggiormente la mia riflessione;
IV.
Abboccherà il demente all’esca
dei ragazzi del bar?
Certo che abboccherà
e per un niente
nella sua nebbia si ritroverà
dalla parte del torto.
Lo picchieranno, dopo, piú di gusto.
C’era altro da fare delle domeniche?
I giornali attorno ai chioschi
garruli al vento primaverile:
viene un tale, canaglia in panni lindi,
su titoli e immagini avventa un suo cagnaccio.
– La sporca politica
e noi sempre pronti a rifondere il danno,
Pantalone che paga –
e getta soldi all’accorso edicolante.
Approvazioni, intorno, risa.
V.
L’Italia, una sterminata domenica.
Le motorette portano l’estate
il malumore della festa finita.
Sfrecciò vano, ora è poco, l’ultimo pallone
e si perse: ma già
sfavilla la ruota vittoriosa.
E dopo, che fare delle domeniche?
Aizzare il cane, provocare il matto…
Non lo amo il mio tempo, non lo amo.
L’Italia dormirà con me.
In un giardino d’Emilia o Lombardia
sempre c’è uno come me
in sospetti e pensieri di colpa
tra il canto di un usignolo
e una spalliera di rose…
(Foto di copertina da: Corriere di Milano)