Fino a qualche giorno fa digitando in un qualsiasi motore di ricerca “Isole Salomone” sarebbero comparse irrinunciabili offerte di viaggio e immagini di acque e spiagge paradisiache. Oggi no. Oggi a balzare agli occhi sono fotografie di edifici in fiamme e barricate lungo le strade.
Vi chiederete che importanza possano avere a livello mondiale degli episodi simili in uno sperduto arcipelago del Pacifico. Comprensibile. Se vi diciamo però che ci sono di mezzo anche Cina e Australia forse però le Isole Salomone non sono solo uno Stato presente sugli atlanti e sui volantini delle agenzie di viaggio.
La violenza delle proteste
Dal 24 novembre il popolo salomonese è sceso in piazza in tutto il paese per protestare contro le politiche economiche del governo di Manasseh Sogavare. I manifestanti, provenienti in particolare dall’isola di Malaita, una delle più popolose, lamentano uno scarso sostegno finanziario all’isola che porta con sé pesanti conseguenze.
I dimostranti hanno agito e stanno agendo in maniera tutt’altro che pacifica, incendiando edifici governativi e negozi (in particolare nei quartieri cinesi), arrivando ad assaltare il Parlamento e chiedendo le dimissioni di Sogavare. La polizia ha risposto con altrettanto vigore utilizzando gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Per contenere il dilagare delle proteste è stato inoltre imposto un coprifuoco di 36 ore.

Misure risultate tuttavia insufficienti a placare la rabbia degli abitanti, tanto che le Isole Fiji, la Papua Nuova Guinea e soprattutto l’Australia (in virtù di un trattato di mutua assistenza firmato nel 2017) hanno inviato nel complesso oltre duecento uomini per tentare di riportare la calma a Honiara.
Il fattore economico non è però l’unico alla base delle violente rivolte ed è qui che entra in gioco niente meno che la Cina.
Il ruolo della Cina
La ragione principale delle proteste è infatti da ricercare in un avvicinamento tra il governo centrale delle Isole Salomone e la Cina, iniziato a partire dal 2019. Fino a un paio di anni fa infatti lo Stato oceanico manteneva solidi rapporti diplomatici con Taiwan, isola indipendente rivendicata come propria dalla Cina.
Nel 2019 però la superpotenza asiatica convinse le Isole Salomone a cambiare lato dello schieramento, offrendo importanti aiuti sul piano economico (circa 730 milioni di dollari). Taiwan, per usare un eufemismo, non la prese bene: troncò immediatamente i rapporti con il governo salomonese e accusò la Cina di aver fatto ricorso alla “diplomazia del dollaro” per comprare gli ormai ex-alleati.

L’importanza strategica delle Isole Salomone
Con la chiusura dell’accordo le Isole Salomone sono state inserite nella Belt and Road Initiative (Nuova via della seta), un meccanismo che consente alla Cina di esercitare un’influenza notevole sul piccolo arcipelago oceanico. Pechino, dopo aver annunciato la costruzione di uno stadio dal valore di 74 milioni di dollari, ha ottenuto il diritto di costruire nuove infrastrutture con l’obiettivo di riportare ai fasti del passato la Gold Ridge, la principale miniera d’oro del paese.
Il fine ultimo dello Stato asiatico è comunque quello di installare basi militari aeree e navali in paesi che rivestono un ruolo di primo piano a livello geostrategico, non solo nel Pacifico, ma anche in Africa e nell’oceano Indiano. Le economie di questi Stati non sono in grado di ripagare i debiti contratti con Pechino e spesso sono quindi costretti ad elargire ampie concessioni sui propri territori per saldare i prestiti.

Quello delle Salomone non è dunque un caso isolato in Oceania dal momento che la Cina ha allungato i propri tentacoli anche a Tonga, Kiribati, nelle Isole Vanuatu e in Papua Nuova Guinea. E in quest’ottica è possibile comprendere un interesse sempre più vivo dimostrato anche dagli Stati Uniti nei confronti della “questione pacifica” tanto che nelle scorse settimane Washington ha inviato a più riprese propri rappresentanti a Honiara.
Un’ulteriore conferma che evidentemente le Isole Salomone sono ben più di un semplice pedone sullo scacchiere economico e politico mondiale.