La politica estera cinese è da tempo oggetto di studi approfonditi e complessi; non ci risultano mai chiare le ragioni di alcune delle azioni intraprese da Pechino, ma proprio questo ci rende palese una cosa, non possiamo continuare a tentare di leggere il fenomeno cinese con occhio occidentale. Ogni nostro sistema di valori e di concettualizzazione perde significato quando ci approcciamo all’analisi della realtà politica, nel suo senso più intimo, della Cina, un paese che se guardato in prospettiva storica sembrerebbe non poter adottare nessun altra ideologia se non quella comunista. Non un’ideologia comunista qualunque però, non quella marxista o europea, ma la sua, l’adattamento alla dottrina per le specifiche esigenze del popolo cinese.

Per approfondimenti in merito invitiamo a leggere i seguenti articoli di Limes qui e qui – fonti del presente articolo.

Secondo il sociologo Johan Galtung principalmente 3 elementi contribuiscono a plasmare un’identità collettiva: mito, trauma, predestinazione. La storia cinese, pesantemente influenzata dalle caratteristiche morfologiche della regione, ha portato il popolo cinese a far coesistere in sé un binomio solo apparentemente contraddittorio. Una tendenza strategica difensiva-reattiva, ma un’anima dal forte impulso universale, dovuta anche al tipo di spiritualità che si è andato ad evolvere in oriente. Questa può forse essere una spiegazione sufficiente del perchè le esplorazioni dell’ammiraglio Zheng non ebbero mai lo scopo di proiettare la Cina nel mondo con forza, ma non per questo non cercarono di legittimare l’autorità universale dell’Imperatore.

Con il superamento del “secolo dell’umiliazione” a seguito delle invasioni di Giappone, Russia, e le potenze occidentali e quindi del “trauma”, l’identità politica cinese spianava la strada all’avvento del comunismo. Questa ideologia che è riuscita ad entrare in Cina quanto la Cina è riuscita ad entrare in essa. Grazie alla fonte di grandiosità che risulta essere la storia cinese, al carattere totalizzante dell’ideologia comunista e al paradigma dell’azione insito in essa, giungiamo alla cina contemporanea. Quella Cina che seppur comunista sarebbe riuscita ad avvicinarsi agli USA a discapito della vicinanza all’Unione Sovietica, quella Cina che sarebbe riuscita a ritagliarsi un suo spazio d’azione in un mondo che all’alba della dissoluzione dell’URSS stava venendo scioccamente chiamato post-ideologico.
Ed ecco che il “rinnovamento della nazione” nei contributi ideologici di Xi Jinping e dei suoi predecessori prende forma nelle diverse iniziative. La Belt and Road Initiative, per riportare la Cina al centro dei traffici globali del commercio. La promozione del processo di riunificazione con Taiwan e il conflitto con Hong Kong. L’approccio totalizzante alla stabilità e sicurezza interna, reso poi orwelliano dalla commistione con le più avanzate tecnologie in campo cyber. E infine la miriade di conflitti di confine con molti dei suoi stati confinanti, che più spesso che no sembrano veri e propri stress test alla tenuta della governance globale a guida USA.

La Cina agisce, e lo fa conscia delle risorse identitarie del suo popolo, le cui élite ancora cercano di fare giustizia al trauma subito. Entro il 2049, centenario dalla nascita della Repubblica Popolare, è obiettivo del PCC raggiungere economicamente e militarmente i livelli di Washington. Pechino dal 1978 ha visto una crescita economica priva di pari, e dal 2000 ha completamente rivoluzionato anche le sue capacità militari, che se pur ancora lontane dai livelli americani, risultano essere particolarmente sviluppate nel settore missilistico e navale, senza considerare le capacità cibernetiche della nazione asiatica, che poco hanno da invidiare alle loro controparti occidentali. E se la Cina non vuole una guerra, data la sua attuale evidente inferiorità rispetto agli Stati Uniti (e anche per via della sua visione di ordine globale), il suo rifiuto alla ratifica dei trattati INF sulle forze nucleari intermedie ci presenta uno stato che non ha nessuna intenzione di giocare secondo le regole prestabilite.

Il declino dell’influenza di Washington nel mondo è evidente, questo assieme all’ascesa dell’influenza cinese. Ma questo processo è irreversibile? Ha un risultato scontato? Probabilmente no. I dissensi interni al Partito Comunista Cinese si stanno facendo sentire, ed l’influenza di un nuovo ideologo potrebbe cambiare gli allineamenti della nazione, da sempre cangianti. Inoltre c’è ancora tanta strada da fare affinché la Cina anche solo riesca a mettere in sicurezza la sue immediatezze marittime, e raggiungere una potenza paragonabile agli Stati Uniti si potrebbe rivelare complicato nel momento in cui si è circondati da stati che temono per la loro sicurezza, ancora di più se tra questi stati annoveriamo una potenza come l’India. Tutto questo per dire che questa fase di disequilibrio del potere internazionale non ha un finale già scritto, e molti sono i fattori da tenere in considerazione, non per ultimi quelli interni, che nel caso della Cina risultano e risulteranno per il futuro prossimo di difficile analisi.

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