Negli ultimi mesi gli USA hanno per due volte agito da mediatore: nel favorire la normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e nella conclusione dell’accordo tra Serbia e Kosovo. Quest’ultimo prevede che i due Stati balcanici normalizzino i rapporti economici tra loro, però non comporta il riconoscimento ufficiale, come ha sottolineato il presidente serbo Vucic. Tale accordo prevede inoltre un più forte sostegno nei confronti di Israele: è infatti previsto lo spostamento dell’ambasciata Israele a Gerusalemme (come nel 2018 gli USA hanno fatto per primi, riconoscendo anche la città come capitale di Israele nonostante sia reclamata anche dai palestinesi) sia da parte della Serbia che del Kosovo, che instaurerà anche relazioni diplomatiche ufficiali con Israele: è una decisione molto importante perché in Kosovo la maggioranza della popolazione è di religione musulmana, come lo sono i palestinesi.

Si tratta di due risultati molto importanti per gli equilibri dell’area mediorientale e anche molto utili per Trump in ottica di sostegno politico interno. Nonostante ciò, l’approccio politico di Trump viene definito dall’importante think-tank statunitense Council on Foreign Relations come “una profonda divergenza dalla leadership statunitense in aree come il commercio e la diplomazia”. Tali decisioni possono venire direttamente ricondotte alla dottrina America First da sempre proposta dall’attuale presidente, che infatti ha visto gli USA abbandonare trattati internazionali come il TPP (Trans-Pacific Partnership, accordo commerciale tra Stati asiatici, dell’Oceania, nord e sud americani affacciati sull’Oceano Pacifico), l’Accordo di Parigi sul clima, l’accordo di non proliferazione nucleare con l’Iran (JCPOA, Joint Comprehensive Plan of Action; in ambito nucleare ha però contrastato la Corea del Nord), mentre è invece stato modificato il molto criticato NAFTA (North American Free Trade Agreement, sostituito con lo USMCA, United States-Mexico-Canada Agreement).

Il tema principale della politica estera è comunque giustamente stato il confronto con la Cina, lo Stato in maggiore ascesa nel contesto internazionale e che può quindi minacciare l’odierna posizione di leadership statunitense. Si tratta probabilmente dell’unico tema sul quale sia i Democratici che i Repubblicani riescono facilmente a trovare un accordo, infatti negli ultimi anni sono state imposti diversi dazi e restrizioni sui beni provenienti dallo Stato asiatico (la cd. trade war).
È vero che la Cina è il primo grande sfidante degli USA dal collasso dell’URSS, però gli analisti di Foreign Affairs (The ideology delusion) mettono in guardia dal considerare questo scontro come ideologico: la Cina sarebbe una minaccia economica anche se fosse una democrazia, quindi non ci si deve concentrare sul cambiare il sistema politico cinese. Gli USA devono invece contrastare l’obiettivo della Cina di controllare il mercato asiatico per evitare di venire surclassati economicamente; gli statunitensi possono però contare sul supporto di molti Stati asiatici loro alleati, i quali li preferiscono alla Cina.

Rispetto a tale monito salta comunque all’occhio il fatto che la presidenza di Trump non si sia contraddistinta per il rispetto dei diritti umani, come infatti dimostrano le dure decisioni in tema di immigrazione (una delle quali imponeva addirittura la separazione di madri e figli delle famiglie colte ad entrare illegalmente nel territorio statunitense). Diversi opinionisti spiegano tale comportamento come la conseguenza dell’ammirazione che Trump prova verso le figure forti al comando e soprattutto verso Putin, nei confronti del quale infatti non sono mai giunte decise accuse per le sue azioni al di là della legge (avvelenamento di Navalny) e addirittura contro gli USA (ad esempio, l’intelligence russa aveva posto delle ricompense per l’uccisione di soldati statunitensi in Afghanistan, per non parlare delle interferenze russe sulle elezioni presidenziali statunitensi); quando gli viene chiesto di prendere posizione contro la Russia, Trump risponde che con Putin “va d’accordo” e cambia argomento accusando la Cina di fare molto peggio.

Oltre a questo peculiare rapporto con lo Stato erede del nemico ideologico, economico e militare degli USA nella seconda metà dello scorso secolo, Trump ha una considerazione negativa degli storici alleati statunitensi (ad esempio, ha sempre criticato la NATO, ma a riguardo non ha tutti i torti visto che sono pochi gli Stati membri a rispettare la quota di contribuzione prevista).

Nel complesso pare che l’Amministrazione Trump non abbia una strategia ben definita per agire in politica estera, quindi i suoi obiettivi possono dipendere in gran parte dall’interpretazione che ne dà il presidente stesso nel perseguire la sua dottrina di difesa degli interessi statunitensi. In ogni caso, Trump è in carica solamente da circa quattro anni, perciò la posizione degli USA nel contesto internazionale costruita negli scorsi decenni non è stata completamente ribaltata; nonostante ciò il suo mandato si è sicuramente distinto per un approccio completamente diverso rispetto alle precedenti modalità d’azione del gigante a stelle e strisce, principalmente per le relazioni altalenanti con gli alleati storici.

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Di Alessio Piccoli

Mi chiamo Alessio Piccoli, ho 23 anni e vengo da un piccolo paese in provincia di Pordenone. Studio Scienze Politiche all'Università Cattolica di Milano ed è proprio di politica che mi occupo, interessandomi principalmente ai contesti italiano, europeo e statunitense. Tra le mie altre passioni ci sono la musica e gli sport, il calcio soprattutto.

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