(immagine di copertina da theSocialPost)
di Alessandro Bongiolo e Pietro Angeli
Almeno che non viviate sottoterra come i Viet-cong conoscete tutti la vicenda. Del “caso Fedez” se ne è parlato e se ne sta parlando tantissimo e ovunque, in Tv, sui social, nei giornali, nelle conversazioni quotidiane di moltissimi di noi. Era difficile immaginare che l’argomento sarebbe rimasto caldo così a lungo, anzi si sentiva odore di breve e sterile polemica social fatta, in questo caso, di scaricabarile tra Fedez e la Rai e di vittimismo salviniano, dato che ormai il flusso delle notizie è talmente rapido che non permette di soffermarsi su una questione per più di un paio di giorni.
Invece così non è stato, per quanto effettivamente Salvini non abbia perso tempo a strumentalizzare la vicenda (non sia mai che si faccia sfuggire un’occasione, tra l’altro l’accusa di fare pubblicità alla Nike per via del cappellino si commenta da sola) e per quanto Fedez non si sia fatto pregare nel rendere pubblica la chiamata con i direttori di Rai 3. Da qui piuttosto si sono aperti diversi dibattiti: dal merito del ddl Zan alla politicizzazione della tv pubblica (accusata di censura), dal ruolo dei personaggi pubblici e degli artisti all’intromissione della politica in qualsiasi contesto possa darle visibilità, dalla capacità delle persone più popolari di influenzare l’opinione pubblica al significato della festa dei lavoratori al giorno d’oggi.
Ossessionati dall’ipocrisia altrui
Le affermazioni di chi sostiene che Fedez sia un cantante e pertanto debba occuparsi di fare solo ciò che pertiene al suo campo paiono abbastanza ridicole. Posto che nascono dei dubbi sul fatto che egli sia solo un artista, ritenendolo piuttosto un personaggio pubblico a tutto tondo, ben venga che una persona dotata di ampia influenza prenda posizioni anche politiche e si esprima su tematiche sociali o che, come in questo caso, riguardano i diritti civili.
D’altronde in altri paesi, Stati Uniti su tutti, è del tutto normale che vari personaggi famosi si esprimano a favore di certe battaglie anche in contesti “neutrali” e a-politici, basti pensare alla cerimonia degli Oscar; non si capisce perché in Italia questi comportamenti siano spesso sinonimo di “impurità”. Tornando al caso specifico, non si coglie neanche il motivo di stabilire se Fedez ha pronunciato quel discorso perché crede sinceramente in ciò che ha espresso o per pubblicità personale e per far parlare di sé (o un misto di entrambe le motivazioni, come è più probabile). Sarà banale, ma se tramite questo gesto è riuscito a sensibilizzare delle persone sul tema delle discriminazioni e sulle difficoltà dei lavoratori dello spettacolo ben venga, considerando soprattutto che il pubblico medio della tv generalista (concerto del primo maggio, prima serata, rai 3) potrebbe non essere così interessato al tema dell’omotransfobia. Insomma il fine giustifica i mezzi.
Non ci servono dei martiri
Una cosa però va detta, non trasformiamo Fedez, o chi per lui in altri casi, nel coraggioso eroe nazionale che si scaglia contro i temibili poteri censori e sfida incurante del pericolo i leader politici più popolari del momento. Lui non rischia nulla, grazie sia al suo sconfinato patrimonio finanziario che all’immensa popolarità di cui gode (non solo sui social). Qualcuno potrebbe obiettare chiamando in causa gli insulti e le minacce social che sicuramente ha ricevuto, ma questa argomentazione non regge dato che qualsiasi personaggio famoso che abbia un numero abbastanza consistente di follower riceve insulti per il semplice fatto di esistere.

(immagine da Rolling Stone)
L’elefante nella stanza
Questa dinamica appena descritta, fatta di vittime e paladini, rischia di allontanare l’attenzione dall’annosa questione, sollevata dalle scomposte accuse di censura rivolte alla TV pubblica, che da tempo sembra chiedere una soluzione: lo stato di “mamma Rai”.
La prima emittente italiana non gode infatti, da tempo, approssimativamente dalla sua fondazione, di grande indipendenza. Tuttavia, a partire dalla fine degli anni 70’, con la nascita di un terzo canale (Rai 3) ha preso il via un sistema del tutto peculiare di gestione della principale macchina comunicativa del Paese.
Tale sistema, meglio noto come “lottizzazione”, prevede un’informale suddivisione delle tre principali reti dell’emittente tra i partiti più influenti presenti nell’arco politico italiano. Ciò è consentito dalla particolare struttura organizzativa della Rai che affida alla politica il compito di assegnare tutti i principali ruoli dirigenziali all’interno del sistema amministrativo. In sostanza CDA e Presidente sono il frutto delle indicazioni di Camera, Senato e Governo, rispettivamente due a testa (uno solo uno dei 7 membri che compongono il CDA è nominato dall’assemblea dei dipendenti Rai).
La riforma del 2015 che promuoveva una svolta in senso più imprenditoriale e che diceva di voler allontanare TV e politica non sembra aver raggiunto il suo obiettivo dato il ripresentarsi delle dinamiche di spartizione delle emittenti da parte dei partiti.
Memoria corta e finti tonti
A questo proposito sembrano suonare in maniera stridente le ultime dichiarazioni piovute da tutti i principali partiti. Da Conte (presunto leader dei cinque stelle) a Salvini, passando per Letta ed Orlando si sono detti unanimemente preoccupati, dimenticando forse le rispettive responsabilità per lo stato di “mamma Rai”. L’attuale CDA, infatti, è frutto della maggioranza nata post elezioni del 2018 (M5S-Lega), mentre la riforma del 2015 sopracitata porta la firma del PD (seppure renziano).
Insomma, dal grande clamore venuto dalla vicenda del Concertone del Primo Maggio sembrano, come spesso accade, essersi levate diverse questioni meritevoli certamente di attenzione, si attende ora sui diversi fronti una prova dei fatti che, a differenza delle intenzioni, meriteranno a tempo debito equo processo.