Nuovo capitolo nella regolazione delle big tech: dopo l’accusa rivolta a Google durante il mese di ottobre (ne abbiamo parlato più approfonditamente in questo articolo), stavolta l’azienda coinvolta è Facebook.
Facebook è un monopolio
Nello specifico, l’azienda di Mark Zuckerberg è stata accusata da 46 stati federati degli USA (nella figura dei procuratori generali statali, state attorney generals) e dalla FTC (Federal Trade Commission) di avere limitato la competizione nel settore dei social networks e della messaggistica: l’avrebbe fatto decidendo di acquistare Instagram per $1 miliardo nel 2012 e WhatsApp per $19 miliardi nel 2014.
Secondo le autorità, queste acquisizioni sono state decise per evitare che le due app potessero crescere e minacciare la posizione di Facebook nel settore, una tattica che l’azienda è accusata di aver applicato anche in altre situazioni negli anni successivi. Così facendo, la posizione di Facebook risulta essere quella di un monopolista, che impedisce l’accesso al mercato ad altri soggetti.
A venirne colpiti non sono però solo altre aziende del settore social e comunicativo, ma anche i consumatori, che non avrebbero la possibilità di scelta di scegliere quali app usare. Inoltre, le autorità ritengono che bloccare sul nascere ogni altro progetto abbia conseguenze negative anche sull’innovazione e lo sviluppo del settore.
L’azienda di Palo Alto ha chiaramente respinto le accuse, replicando che le proprie scelte non impediscono agli individui di poter accedere ad altre piattaforme, i quali utilizzano quindi Facebook e le app collegate perché lo scelgono. Ha poi criticato la decisione delle autorità di prendere in considerazione le due acquisizioni avvenute ormai anni fa e nei confronti delle quali all’epoca non ci fu alcuna opposizione con accuse simili; a questo la FTC ha replicato facendo notare come la legislazione statunitense non impedisca una revisione a posteriori.
La FTC e i procuratori generali potrebbero chiedere che il controllo di Instagram e di WhatsApp non sia mantenuto direttamente da Facebook, appunto per evitare che non ci sia una situazione di monopolio; dividere le aziende che detengono un monopolio è la soluzione storicamente più usata nelle cause anti-trust. La CNN fa notare come negli ultimi anni Facebook abbia cercato di integrare le varie applicazioni, secondo molti appunto per evitare che proposte di questo tipo possano essere concretamente applicabili. In più, le autorità vorrebbero che Facebook abbia l’obbligo di notificarle nel caso in cui volesse in futuro procedere ad acquisizioni superiori a $10 milioni.
Nonostante le intenzioni delle autorità e il supporto bipartisan che la questione riesce a ottenere, il New York Times fa notare come si tratterà di una questione complicata e lunga. I motivi alla base di tali complicazioni per la autorità giudiziarie sono dimostrare che l’acquisizione di Instagram e WhatsApp da parte di Facebook abbia effettivamente limitato la competizione e peggiorato le possibilità di scelta e di utilizzo dei consumatori, così come chiarire per quale motivo le acquisizioni vengono contestate oggi mentre non lo furono negli anni in cui avvennero; da parte sua Facebook può invece dimostrare che Instagram e WhatsApp sono cresciute enormemente negli ultimi anni, ma anche che la definizione di concorrenza data dalla legge è troppo stringente (l’universo Facebook non riguarda solo l’ambito dei social networks, ma anche l’intrattenimento più in generale e quindi da questo punto di vista c’è competizione con Google, Twitter, Snapchat, Tik Tok e YouTube).
La posizione di Facebook è però resa difficile dal fatto che, quando Zuckerberg ha dovuto testimoniare di fronte a delle commissioni parlamentari a luglio, sono emerse delle email scritte dallo stesso fondatore del social network, in cui ammette che comprare app che stanno avendo successo può essere la soluzione per mantenere la propria posizione di forza.
Cosa aspettarsi da Biden
Siccome sarà una questione lunga – e in generale siamo solo alle prime battute nel confronto tra autorità statali e big tech – è quindi utile cercare di capire come il prossimo presidente statunitense la affronterà.
Secondo CBS, il settore tecnologico vede con ottimismo la vittoria di Biden perché si tratta di una figura più moderata e affidabile (reliable) rispetto a Trump: le big tech ora rimarranno in attesa di capire come vorrà agire l’ex vice-presidente. I temi tecnologici non sono stati centrali nella campagna elettorale, perciò la CBS ritiene che l’ex senatore non attuerà un’agenda “progressive”; nonostante ciò, potrebbe comunque intervenire su temi legati anche alla quotidianità degli individui e che possono influenzare le prestazioni lavorative: un tema di questo tipo è il digital divide, cioè la possibilità per gli individui di avere i devices e le infrastrutture per poter accedere a internet.
Le questioni tecnologiche non dovrebbero essere la priorità per Biden, che ha già più volte dichiarato di volersi concentrare sul contenimento della pandemia da Coronavirus e sulla ripartenza economica; inoltre, dovrebbero avere precedenza nell’agenda i diritti civili e il cambiamento climatico. I temi legati alla tecnologia avranno però sicuramente spazio nel dibattito politico perché Biden dovrà comunque scegliere chi guiderà la FTC e il Dipartimento di Giustizia, istituzioni che già si sono interessate al settore. Bisogna poi anche tenere presente che le minacce tecnologiche non provengono soltanto dalle grandi aziende a stelle e strisce, ma si temono le possibili ingerenze cinesi (infatti Trump si è scagliato contro Huawei e Tik Tok) e russe (si ricordano le polemiche relative alle elezioni presidenziali del 2016).
In ogni caso, un aspetto importante nell’approccio di Biden è il fatto che dalla presidenza Obama e dal 2016 l’opinione sul ruolo delle tecnologie e dei social networks in ambito politico-sociale è cambiata drasticamente. Bloomberg ricorda come la Silicon Valley venisse pochi anni fa considerata come un brillante esempio di innovazione e di successo, tanto che si riteneva di poter applicare le logiche di quel settore all’ambito pubblico, e le proposte di Clinton durante la scorsa campagna elettorale proponevano politiche favorevoli al settore. Negli anni successivi l’influenza che i social media hanno avuto sul dibattito politico (anche a causa della diffusione delle fake news) e l’enorme stazza raggiunta dalle aziende leader del settore ha causato la fine di quella cieca fiducia.
Ciononostante, il Guardian fa notare come Biden – ma più di lui in generale i democratici californiani e la vice-presidente Harris (attorney general della California proprio negli anni delle acquisizioni di Instagram e WhatsApp da parte di Facebook) – mantenga dei forti rapporti con l’ambiente delle aziende tecnologiche, motivo per il quale molte delle persone che faranno parte della sua amministrazione hanno lavorato presso grandi aziende tecnologiche; considerando ciò, il quotidiano inglese ha pochissima fiducia che Biden prenda una posizione decisa contro le aziende tecnologiche. Si tratta probabilmente di un’opinione piuttosto drastica, perché se è vero che Biden non sarà un presidente rivoluzionario e che durante i suoi primi giorni in carica affronterà altre problematiche, è comunque innegabile che certe questioni legate alla tecnologia esulino dal settore e riguardino scelte politiche più generali, ma anche che le investigazioni aperte prima dell’inizio del suo mandato inevitabilmente faranno in modo che il tema venga discusso.
In Europa
Nel continente dove la social-democrazia e le annesse politiche hanno attecchito maggiormente si parla di “web tax”. La risposta dell’Unione Europea potrebbe arrivare con l’avvio del piano Next Generation EU: infatti, Paolo Gentiloni – commissario europeo dell’Economia – ha annunciato come quest’azione potrebbe essere inserita “a forza” nonostante l’interruzione del negoziato con l’OCSE. L’introduzione di una digital tax porterebbe alla risoluzione di due problemi strettamente collegati: la tassazione per sedi fiscali e l’elusione.
Per quanto riguarda la prima, un chiaro esempio è come la Apple agisce in tal senso. Infatti, la sede fiscale del colosso della telefonia risiede in Irlanda, Paese che ha garantito alla multinazionale statunitense un trattamento fiscale preferenziale. La Apple, quindi, viene tassata per una percentuale quasi nulla sui profitti dell’azienda, mentre i capitali non tassati (il restante 99% e oltre) fuggono oltreoceano. Ciò consente all’impero creato da Steve Jobs di pagare tasse irrisorie relativamente all’immensità degli introiti annui: questo “sfruttamento” delle leggi in materia fiscale è chiamato elusione.
Il superamento del sistema fiscale basato sulla sede fiscale porterebbe ad annullare l’elusione fiscale, comportando immensi vantaggi per tutti i Paesi dell’Unione Europea.
Il raggiungimento di un tale tipo di sistema fiscale sarebbe un enorme successo per l’Europa. Questo piano, hanno evidenziato svariati economisti, porterebbe ad un aumento del PIL dell’Eurozona (non c’è una stima unitaria). Naturalmente, un aumento del gettito fiscale corre in aiuto dei singoli Stati membri, i quali possono – grazie alle maggiori coperture – approvare documenti di economia e finanza annuali più corposi, oppure ricorrere a politiche più moderate volte alla riduzione del debito.
Ma, accanto a questa proposta, andrebbe affiancata un’altra misura, attualmente bloccata dal Consiglio Europeo: una tassazione unitaria a livello globale. Infatti, essa si figura come un passo complementare per la lotta ad un altro problema del mondo fiscale, vale a dire quello dell’evasione. Si stima che ogni anno in Europa 160-190 miliardi di euro non finiscano nelle tasche degli Stati a causa dell’evasione fiscale delle imprese: non serve evidenziare quanto ciò gravi sui servizi di ogni Paese.
Un futuro possibile?
Insomma, abbiamo visto come la lotta alle big tech sia strenua ma complicata. Negli ultimi vent’anni, le multinazionali hanno assunto una dose di potere tale da poter comandare su alcuni Stati, specificamente quelli più piccoli, grazie al loro potere economico, in quanto alcune hanno patrimoni superiori ai PIL di alcune nazioni. Avere potere economico significa avere potere politico e negoziale/diplomatico, e una trattativa tra Stati e multinazionali assume la forma di un vero rapporto interstatale.
Tuttavia, passo dopo passo si sta raggiungendo l’obiettivo, anche grazie alle decise prese di posizione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, tra i pochi ad essere abbastanza grandi per poter imporsi di fronte ai giganti della tecnologia. Seguendo una logica incrementale (e non rivoluzionaria), nel prossimo decennio potremo vedere costanti miglioramenti sia sul piano fiscale che in materia concorrenziale.
(Foto di copertina da The New York Times)