Sono passati quasi cinque mesi dall’insediamento di Joe Biden come Presidente degli Stati Uniti, i quali probabilmente ci sono sembrati più tranquilli per via del minore trambusto mediatico della nuova amministrazione: Biden usa i social networks in modo istituzionale, nettamente diverso dall’approccio di Trump più – diciamo – disintermediato. In seguito all’assalto del Campidoglio del 6 gennaio Trump è stato però sospeso da tutte le principali piattaforme: Twitter ha deciso di rendere permanente il ban, mentre Facebook l’ha in questi giorni rinnovato per altri due anni.
Nel frattempo, l’ex Presidente per esprimersi è ricorso a dei comunicati stampa e a inizio maggio ha provato a lanciare un blog personale, chiamato From the Desk of Donald J. Trump: è stato chiuso il 2 giugno, ufficialmente perché si vuole costruire un sistema di comunicazione più completo e interattivo, ma si vocifera che il vero motivo sia il basso numero di interazioni quotidiane.
Seppure lo stesso Trump sia cosciente di non avere bisogno di essere presente sui social networks perché i suoi statements vengano discussi dall’opinione pubblica, ma gli basti rilasciare dei comunicati stampa (ad esempio tramite il sito), sembra che il suo staff consideri un social network o un’app interattiva necessaria più che altro per i supporters, per permettergli di seguire attivamente l’ex Presidente; i cattivi rapporti con le Big Tech e gli alti costi di gestione autonomi rendono però difficile trovare una soluzione di questo tipo.
Prosciutto sugli occhi
Non bisogna venire ingannati dall’assenza di Trump dai social: continua a insistere – falsamente – di aver vinto l’elezione di novembre 2020.

Inoltre, queste sue fake news e in generale la sua figura hanno ancora grande supporto e seguito nel partito. Secondo un sondaggio IPSOS/Reuters uscito a inizio aprile, tra chi si dichiara repubblicano:
-il 66% considera Trump in modo positivo (mentre solo l’11% considera l’attuale Presidente Biden nello stesso modo), cifra che sale all’81% se si considera anche chi viene contato nella categoria “lean towards favorable”;
–il 55% ritiene che l’elezione di novembre 2020 sia stata “il risultato di voti illegali o manipolazione elettorale”;
-il 60% è d’accordo nel dire che l’elezione è stata rubata a Trump;
–il 63% sostiene che Trump non sia da incolpare per l’assalto al Campidoglio;
-il 51% considera le persone che si sono riunite al Campidoglio il 6 gennaio come “peaceful” e “law-abiding”;
-il 55% ritiene che l’assalto al Campidoglio sia stato guidato da protestatori violenti di estrema sinistra intenzionati a incolpare Trump.
Chiaramente il complottismo di destra statunitense non ha cessato di esistere in seguito all’ingresso alla Casa Bianca di Biden, come d’altronde dimostra la convention di simpatizzanti di QAnon che si è tenuta a Dallas (in Texas) a fine maggio. Come ricostruito dall’Osservatorio sul Complottismo, ufficialmente l’evento non è stato organizzato da QAnon, ma nei tre giorni di eventi si sono visti simboli, si sono sentiti temi – la pandemia, le elezioni di novembre, i complotti del deep state di sinistra – e vi hanno partecipato personalità legate al culto.
Le figure più importanti che sono intervenute sono state George Papadopoulos (ex consigliere per la politica estera nell’amministrazione Trump), Louie Gohmert (membro texano della Camera dei Rappresentanti), Allen West (presidente del Partito Repubblicano in Texas; si è appena dimesso dal ruolo, forse perché vuole candidarsi), Sidney Powell (ex avvocata di Trump) e Michael Flynn (ex National Security Advisor nell’amministrazione Trump). L’intervento di quest’ultimo ha creato scalpore per la risposta alla domanda se anche negli USA potrebbe verificarsi un colpo di Stato militare come in Myanmar: ha risposto “no reason, I mean, it should happen here”, ma in seguito ha detto che le sue parole sono state distorte ed estrapolate da un contesto più ampio.
Deep in the heart of Texas
Rimanendo in Texas, è di questi giorni la notizia che George P. Bush, figlio di Jeb Bush e dunque nipote degli ex presidenti George H. W. Bush (1988-92) e George W. Bush (2000-08), ha annunciato la sua candidatura a procuratore generale del Lone Star State. Attualmente Bush è già attivo nella politica texana, ma ciò che è importante di questo fatto è la scelta di Bush di schierarsi a favore di Trump, nonostante la famiglia Bush abbia sempre avuto un ruolo influente sulla politica texana e sul partito. Inoltre, negli scorsi anni Trump ha attaccato duramente Jeb Bush, mentre George W. Bush è sempre stato critico dell’influenza trumpista sul Partito Repubblicano.
Che l’opinione di Trump all’interno del partito sia ancora cruciale lo dimostra anche il fatto che pure l’altro candidato per questa elezione, l’attuale procuratore generale Ken Paxton, si sia sempre dichiarato trumpiano: il magnate newyorkese ha detto che apprezza entrambi i candidati e che a breve farà sapere la sua preferenza.
You’re fired!
Quanto appena discusso ci porta al punto cruciale della questione: il Partito Repubblicano ha la possibilità o l’intenzione di andare oltre a Trump? Pare di no: anzi, all’interno del partito non sembra possa esserci una vera alternativa a Trump, perciò molti elettori e molti esponenti si stanno allontanando dal partito, oppure rifiutano di candidarsi e di rimanere in carica.

Nei mesi scorsi si era discussa la possibilità che Trump lasciasse il Partito Repubblicano e ne fondasse uno proprio (si vociferava il nome Patriot Party), ma questa possibilità è stata smentita dal diretto interessato alla Conservative Political Action Conference.
All’interno del GOP – acronimo di Grand Old Party – ci sono dei non-trumpiani, i quali però hanno difficoltà a creare una vera alternativa al trumpismo, sia internamente al partito che creando una nuova forza politica: dei tentativi di politici alternativi sono The Lincoln Project e Country First, ma tra gli ostacoli ci sono la stessa struttura politica statunitense ormai saldamente modellata sul bipartitismo e la difficoltà a trovare una base programmatica condivisa.
Gli oppositori che rimangono nel partito e provano a prendere una posizione critica corrono però dei grandi rischi, come successo a metà maggio a Liz Cheney (figlia di Dick Cheney, vice-presidente di George W. Bush), rappresentante del Wyoming alla Camera dei Rappresentanti: dopo molteplici dichiarazioni di contrarietà relativamente all’influenza di Trump sul partito, i suoi colleghi repubblicani alla camera bassa hanno deciso di rimuoverla dalla posizione di rappresentante del gruppo parlamentare; al suo posto è stata scelta Elise Stefanik, rappresentante di New York e convinta trumpiana.
Liz Cheney, inoltre, è parte di quella minoranza dei repubblicani che hanno sostenuto l’impeachment di Trump in seguito ai fatti del 6 gennaio: la maggioranza del partito ha però deciso di proteggere l’ex presidente, sebbene lo stesso capogruppo al Senato, McConnell, abbia poi definito Trump “moralmente responsabile”.
Per indagare quanto successo quel giorno si è anche cercato di creare una commissione parlamentare bipartisan, ma al Senato i repubblicani si sono opposti e hanno impedito che venisse approvata.
È abbastanza evidente come la posizione di certe frange del Partito Repubblicano sia piuttosto contraddittoria: ci si è resi conto del pericolo che Trump può porre, ma allo stesso tempo si è consapevoli di quanto è importante per il successo elettorale; di conseguenza, si cerca di evitare decisioni troppo drastiche a riguardo per evitare di creare malcontento tra gli elettori.
Questa strategia del non-fare potrebbe però favorire le frange più estremiste e complottiste della destra statunitense, che in Trump si riconoscono e hanno trovato un leader, ma che non sono state create solo da lui e che potrebbero sopravvivere al termine della sua carriera politica, avendo nel frattempo ottenuto una posizione ingombrante o pivotale, a seconda del punto di vista, all’interno del partito.