di Andrea Miniutti e Saverio Lanzillo
A breve sarà il ventesimo anniversario dal G8 di Genova, una delle pagine più buie del nostro Paese portatrice di una cruenta violazione dei diritti umani. Un evento che ha tolto l’innocenza ad un’intera generazione, che ha fatto crollare la fiducia nelle forze armate soprattutto in seguito alla morte di Carlo Giuliani, un giovane manifestante ucciso dalla pistola inesperta di un poliziotto. Ma quei giorni di violenza – dai fatti di Piazza Alimonda all’assalto della scuola Diaz –, che dovrebbero provocare una condanna unanime, dividono ancora oggi la politica.
20 anni dopo, l’Italia è ancora uno dei 5 Paesi d’Europa a non prevedere un codice alfanumerico sulle divise delle forze dell’ordine. Nel 2019, la deputata democratica Giuditta Pini ha depositato una proposta di legge concernente l’introduzione del codice identificativo e delle body cam: strumenti di tutela non solo per chi prende parte alle manifestazioni ma anche per le stesse forze dell’ordine. Questa proposta di legge è ferma in commissione da oltre 20 mesi.
I fatti di Milano
Senza voler snocciolare i fatti di Genova – servirebbero ore e ore per raccontare tutto quello che successe – si possono ricordare i casi di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Ma, per rimanere nell’attualità, basta pensare a quanto accaduto a Milano pochi giorni fa (di cui ne ha parlato in questo video una giovane attivista e influencer, Huda).
Nei video che girano in rete, le brutalità e la violenza utilizzata dalle forze armate (in tenuta anti sommossa) sono davvero gravi. E, come spesso accade, le azioni di chi commette queste atrocità potrebbero rimanere impunite, in quanto la difficoltà di riconoscere chi si celasse sotto a quei caschi assieme alla tipica omertà italiana rischiano di portare al nulla più assoluto.
Non si tratta di discorsi ideologici: si tratta di sicurezza, di difendere i cittadini e le forze dell’ordine. La proposta permetterebbe di regolare un settore degli impiegati pubblici, quello di chi dovrebbe garantire la sicurezza nelle città e unico settore pubblico nel quale non è previsto il codice identificativo, il quale invece è regola per infermieri, postini e dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

La violenza carceraria
Oltretutto, la questione si allarga andando a scoprire ciò che accade nelle carceri italiane: violenze, torture, umiliazioni di ogni genere (qui i video in esclusiva su Domani). Come se non fossero persone. Senza andare ad analizzare a fondo i problemi del sistema carcerario italiano (consigliamo la visione di questo video), è ovvio come il rischio di recidiva sia così alto alla fine della pena. Infatti, ciò che accade nelle prigioni è una dinamica puramente punitiva, e non rieducativa come sostenuto nell’articolo 27 della Costituzione.
Naturalmente, tutto ciò viene legittimato da esponenti di una destra sempre più ambigua, garantista a giorni alterni e “sempre dalla parte delle forze dell’ordine”. Tanto da sostenere addirittura l’abolizione del diritto di tortura, come fece Giorgia Meloni in un tweet nel 2018. E, pure in questi giorni, questa follia sta avendo nuovamente il suo spazio in seguito allo scoppio del caso del carcere di Santa Maria, dove 52 agenti penitenziari sono stati accusati di aver torturato e violentato diversi carcerati. Naturalmente, a chi sarà andata la solidarietà di Salvini e Meloni: alle vittime o alle “povere” forze dell’ordine?
Dopotutto, la questione rimane sempre la stessa: chi ti può salvare se chi dovrebbe farlo è il carnefice? Come ci si può fidare di un ramo delle istituzioni la cui condotta è spesso ambigua, per non dire criminale? Com’è possibile che certe frange della politica difendano a qualsiasi costo le forze dell’ordine, pure dinanzi all’evidente colpevolezza?
Iniziamo a parlarne, perché è una questione di civiltà.