Il governo polacco continua a svuotare lo stato di diritto, mentre l’UE fa quel che può
Ricostruzione dei fatti
L’ultima divergenza riguardo il diritto comunitario fra il governo polacco e l’Unione Europea non si è ancora risolta. Ad inizio ottobre il Tribunale Costituzionale (Corte costituzionale) della Polonia aveva stabilito la primazia della costituzione nazionale sul diritto dell’Unione, scelta avallata dal governo di Varsavia, dando così vita all’ennesimo scontro con Bruxelles per ciò che concerne il rispetto delle norme e dei valori espressi nei trattati europei.
Va infatti ricordato che il Trattato sull’Unione Europea (TUE), per forza di cose sottoscritto da ogni paese membro, afferma la superiorità del diritto comunitario su quello nazionale degli stati membri in alcune aree di competenza. Ebbene, la sentenza del Tribunale, peraltro interpellato dal primo ministro stesso, ha decretato che alcuni articoli del Trattato confliggono con la costituzione polacca: Articolo 1 in materia di di generica dell’Unione, a cui i membri attribuiscono competenze; Art. 2 contenente i valori fondanti della comunità (“rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto”); Art 4 nella parte in cui esplicita il principio di “leale cooperazione”; Art. 19 che regola i poteri della Corte di Giustizia Europea (CGUE).
Dunque, la Corte costituzionale ha affermato che l’Unione Europea “supera i limiti di competenza trasferiti dalla Repubblica di polonia nei trattati” e che la CGUE prevale sulla costituzione senza averne il diritto; di conseguenza, le sentenze e gli atti normativi dell’UE dovrebbero essere conforme alla legge polacca per essere applicati nel paese.
Nel gioco delle parti, la Commissione Europea, anche attraverso la sua presidente von der Leyen, ha immediatamente espresso preoccupazione per la decisione presa e ha garantito che userà gli strumenti in suo possesso per “salvaguardare l’uniforme applicazione e integrità del diritto europeo”. Invece il premier polacco Morawiecki si è espresso in dichiarazioni di sincera appartenenza europea e rifiuto della c.d. Polexit, ma al contempo denunciando un doppiopesismo da parte delle istituzioni UE e accusando di ricatto le stesse, ben consapevole di non poter tirare troppo la corda con le cancellerie europee e abile nel muoversi su un filo sottile al fine di portare acqua al suo mulino. Una interpretazione plausibile è che Varsavia abbia forzato la mano per convincere la Commissione ad approvare il Recovery Fund della Polonia, bloccato dalla stessa Commissione per via del preoccupante stato del sistema giudiziario polacco.

Anni di scivolamento verso il basso
L’episodio della Corte costituzionale va a peggiorare un quadro già cupo per quanto riguarda l’indipendenza della magistratura e la solidità dello stato di diritto in Polonia. Dal 2015, i governi guidati dal partito conservatore e sovranista Diritto e Giustizia (PiS), che esprime anche il capo dello stato, hanno iniziato a minare la separazione dei poteri quale pietra fondativa di uno stato liberal-democratico, in particolare tra l’esecutivo e il legislativo, cooptando giudici fedeli al partito nelle istituzioni giuridiche più decisive. La ridotta indipendenza del sistema giudiziario mette inevitabilmente a rischio lo stato di diritto, inteso come il rispetto della legge da parte del potere pubblico, non solo dai cittadini, e che presuppone un diritto basato sui diritti fondamentali applicato paritariamente tra la popolazione (qui un articolo sulle zone “lgbt free” in Polonia nel 2019) .
Le azioni del governo verso questa pericolosa direzione sono state parecchie: nel 2015 il governo riuscì a far nominare cinque giudici del Tribunale Costituzionale, invece che due come previsto dalla legge; l’Ufficio Centrale Anticorruzione è stato riempito di funzionari fedeli al partito; nel 2017 il governo istituì la Sezione disciplinare delle Corte suprema con il compito di indagare e punire gli errori giudiziari dei magistrati, a luglio di quest’anno la Corte di giustizia europea aveva chiesto di sospendere questo organo giudicandolo imparziale, la richiesta non è stata accolta e dunque la stessa CGEU ha da poco imposto una multa di 1 milione di euro al giorno alla Polonia; ancora, nel 2020 l’esecutivo a guida PiS ha approvato una legge che riduce l’indipendenza dei magistrati permettendo di punirli nel caso critichino le riforme e le nomine governative in ambito giudiziario; in ultimo appunto la sentenza del Tribunale costituzionale già sopra illustrata.
L’Unione è intervenuta facendo quel che può per porre rimedio a queste violazioni. Nel 2017 è stata avviata la procedura di applicazione dell’articolo 7 del TUE (clausola di sospensione), chiamando in causa il controllo politico della maggioranza di governo sulla magistratura. L’art. 7 prevede la possibilità di sospendere alcuni diritti dello stato membro (ad esempio il voto in Consiglio europeo) in caso di violazione grave e persistente dei principi e dei valori fondanti dell’UE, tuttavia, questo intervento non è mai stato portato a termine dato che serve l’unanimità fra i paesi membri.
Più volte la Commissione ha anche aperto una procedura di infrazione, che prevede un giudizio da parte della Corte di giustizia europea nel caso un paese non rispetti il diritto comunitario, con eventuale sanzione se si accerta la violazione.
Questi due strumenti hanno avuto effetto minimo o nullo nel far desistere il governo polacco dall’adottare quelle politiche. Infatti, per quanto riguarda l’ultimo caso del Tribunale costituzionale, l’articolo 7 e la procedura di infrazione sembrano avere poca probabilità di essere attivati; piuttosto, l’opzione sul tavolo più efficace sarebbe quella di utilizzare il nuovo meccanismo che lega l’erogazione dei fondi europei pluriennali al rispetto dello stato di diritto, fondi di cui la Polonia ha grande necessità. Alcuni paesi si sono detti favorevoli all’uso di questa misura, che però sarebbe piuttosto drastica per l’economia polacca e avrebbe sicuramente forti conseguenze politiche nei rapporti Bruxelles – Varsavia.

La complicata gestione di una comunità
Il nocciolo della questione è proprio questo, le istituzioni europee, capeggiate a livello di immagine dalla presidente della Commissione Europea von der Leyen, devono muoversi con cautela nella punizione dei membri che non rispettano le regole europee e che si discostano dai valori liberal-democratici (e qui non si può non nominare l’Ungheria), pena il rischio di delegittimare l’UE agli occhi dei cittadini e della classe politica dei paesi targettizzati. È molto complicato effettuare un’analisi costi benefici fra interventi che riportano i paesi in questione all’interno del perimetro normativo comunitario e l’effetto collaterale di radicalizzarli ancor di più rispetto a già esistenti differenze di vedute sulla democrazia e sul ruolo dell’Unione.
Non a caso, nell’ultimo Consiglio Europeo, i leader dei 27 stati hanno deciso di evitare lo scontro con il governo Polonia e hanno optato invece per un approccio di mediazione più distensivo che non ha condotto a conclusioni precise e a provvedimenti concreti, seguendo la linea della cancelliera Merkel. Successivamente al Consiglio, von der Leyen ha cercato di stemperare la crisi proponendo un compromesso alla Polonia per sbloccare gli aiuti del Recovery fund (in particolare la prima tranche di fondi, come per gli altri paesi) in cambio del passo indietro del governo di Diritto e Giustizia su alcune illiberali riforme della giustizia, segno della volontà di evitare un’escalation di tensioni e provocazioni e forse del tentativo di mostrare che l’Europa non “abbandona” nessuno. Rimane comunque il fatto che le questioni di politica interna care al partito di governo rendono difficoltoso raggiungere questo accordo.

Queste considerazioni conducono al tema puramente politico di che tipo di organizzazione/entità dovrebbe essere l’Unione Europea, agli occhi sia dei governi che dei loro cittadini. Ora come ora l’Unione è fortemente intergovernativa, il che significa che, semplificando, la maggior parte delle tematiche (e su quelle più rilevanti) le decisioni devono essere prese all’unanimità, il che vuol dire dover mettere d’accordo 27 stati.
Un tale assetto intacca poco la sovranità nazionale ma al contempo impedisce alle istituzioni europee di imporre politiche “dall’alto” e di agire coercitivamente in maniera efficace nei confronti di uno stato che non rispetti le regole, appunto Polonia e Ungheria.
Un’organizzazione istituzionale e una ripartizione delle competenze più sovranazionale (come un’Europa federale) toglierebbe sovranità ed indipendenza agli stati-nazione, ma permetterebbe di avere un’autorità centrale in grado di vincolare i paesi membri al rispetto delle sue decisioni, in questo caso prese a maggioranza e non all’unanimità.
La nascita di questo tipo di Europa non è affatto scontata e, anche dovesse realizzarsi, non accadrebbe certo nel breve periodo. I paesi europei sono legittimamente riluttanti ad ulteriori cessioni di sovranità, soprattutto di ambiti più strategici per gli interessi nazionali; in più la creazione di un’entità che si avvicini ad un qualcosa di federale richiede che essa sia pienamente legittimata dalle parti, ma la Polonia dimostra che attualmente non è questo il caso, e richiede l’esistenza di un “patto” fra gli stati che sigilli i principi, le norme e i valori condivisi a cui tutti devono sottostare.
Queste riflessioni andranno prima o poi affrontate anche nel dibattito pubblico comune, sia che si voglia o meno proseguire nell’integrazione europea (o peggio, tornare ad uno status precedente). Ciò permetterà di avere uno sguardo più critico e meno ideologico verso i cugini europei e le loro relazioni, magari comprendendo meglio le dinamiche che spingono gli altri stati e gli altri popoli a comportarsi in un modo che sfugge ai nostri valori.