Salvare il salvabile di Sex and the City
Se questo fosse un articolo di Carrie Bradshaw comincerebbe circa così: In un mondo che cambia velocemente, dove la sessualità è sempre più fluida e ogni prodotto televisivo cerca sempre di più l’inclusività, ha senso guardare una serie tv anni Novanta che narra le gesta di quattro ragazze privilegiate bianche etero che cercano l’amore nella sfavillante New York? Le domande di Carrie sono sempre buttate lì, non hanno risposte, sono provocazioni. Qui si tenterà, pretenziosamente, di darle invece una risposta.
Con la recente uscita del sequel di Sex and the City, dall’autoreferenziale titolo And Just Like That, si è ricominciato a parlare della serie che a fine anni Novanta ha per molte ragioni, se non plasmato, almeno influenzato una generazione di ragazze; si potrebbe anche azzardare che sia stata uno dei mattoni che ha costruito il muro delle illusioni contro cui i poveri millennial si sono andati a scontrare quando sono diventati gradi.

Le accuse principali
Molte critiche sono state mosse a questa serie tv, tutte motivate, fondate e insindacabilmente vere, ma quello che mi chiedo è quanto siano utili e cosa, infondo, si possa salvare di questa serie tv.
La prima critica è che le donne rappresentate sono tutte e quattro bianche, cisgender e eterosessuali (se escludiamo la breve relazione lesbica di Samantha, che rientra in realtà nella dimensione della sua inesauribile curiosità sessuale e che porta veramente poco alla tematica queer). Obiezione corretta, la comunità LGBTQIA+ è rappresentata poco e superficialmente nella veste classica, e quindi per niente rivoluzionaria, dell’amico gay (Stanford: lo stereotipo del ragazzo omosessuale insicuro e sempre in cerca di qualcuno che lo ami anche a costo di umiliarsi e mortificarsi) o di una certa cerchia di lesbiche che appare in qualche puntata quasi a rappresentare una élite-setta isolazionista e a sé stante, anche qui secondo uno stereotipo di lesbica come donna-forte e “con le palle” (virgolettata perché l’autrice sa trattarsi di un’espressione immondamente sessista) e quindi in un modo per niente inclusivo.
Carrie: villain della serie
Altra fonte di biasimo è il personaggio di Carrie in sé, egoista e egoriferita, che usa le amiche solo per scaricare loro addosso i suoi drammi emotivi e che quando invece è richiesto il suo aiuto la maggior parte delle volte non si trova o non ha tempo (emblematico il caso in cui manda il suo fidanzato al posto suo a soccorrere l’amica rimasta bloccata con la schiena, nuda sul pavimento del bagno).
La storia d’amore di Carrie poi è la ciliegina sulla torta, si innamora perdutamente di un fascinoso e ricco uomo d’affari, chiamato sempre e solo, almeno fino all’ultima puntata, con il soprannome di Mr. Big (fallocentrismo imperante? Qualcuno dice di sì, e io non me la sento di dissentire), L’uomo la fa sentire al settimo cielo ma la molla e la riprende, si sposa con un’altra e ad un certo punto Carrie si ritrova ad essere l’amante del suo ex. Finalmente Big divorzia e i due si devono sposare ma lui la lascia sull’altare, lei è a pezzi ma alla fine lui chiede perdono e il sospirato matrimonio si celebra.
Sugli sviluppi della coppia nella nuova serie bocca mia taci, ché non è ancora uscita interamente e non posso giudicare non avendo visto tutte le puntate (anche se vorrei molto). Insomma una bella epopea che sembra a dire alle giovani ragazze che non importa quante volte vi calpesta il cuore, vi tradisce e vi umilia, se è vero amore alla fine trionferà, femminismo d’avanguardia insomma.

E molto altro
Non parliamo poi dello slut-shaming, questo a mio parere più presunto che reale, che farebbero le amiche, soprattutto Carrie, nei confronti di Samantha, la più sessualmente disinibita e l’unica, almeno all’inizio, veramente libera dalle dinamiche di coppia e patriarcali verrebbe da dire, anche se spesso viene il dubbio che questo suo libertinaggio sia veramente un’affermazione di volontà e libertà.
Altre critiche? Certo, è abbastanza evidente come, nonostante le donne siano quattro adulte indipendenti e in carriera, si parli molto poco di lavoro e carriera e molto di relazioni. La stessa Miranda, che poi sarà riabilitata come l’unica e vera femminista del gruppo, in una puntata si chiede, e chiede alle sua amiche, se quattro donne tanto indipendenti non sappiano fare altro che parlare degli uomini che le hanno fatte soffrire.
Ed è vero, si parla quasi solo di uomini, l’unica volta che entra in gioco la politica, ad esempio, è quando Carrie sta uscendo con un candidato senatore e la breve discussione tra le quattro viene liquidata con una battuta di Samantha, che fieramente dichiara di votare in base alla bellezza del candidato, fa l’esempio di Nixon: “No one wanted to fuck him, so he fucked everyone”, battuta brillante e pungente ma anche uno dei pochi momenti della serie in cui mi sono sentita abbastanza mortificata, mi sono chiesta: ma queste donne non vogliono parlare di politica perché non ne sono interessate? (il che sarebbe sacrosanto) O piuttosto perché non ne sono capaci?

Quindi è proprio tutto da buttare?
Insomma, i motivi per cui criticare questa serie ci sono eccome, non è inclusiva e non è femminista ma è stata fatta negli anni Novanta, e non per voler essere paladini della contestualizzazione contro il politically correct, perché se una cosa è sessista, offensiva o razzista si può dire, che sia stata fatta oggi, venti o cinquant’anni fa; però bisogna ammettere che a quei tempi un prodotto del genere risultava nuovo, forse non radicalmente rivoluzionario, ma comunque qualche merito gli va riconosciuto.
Intanto si parla di quattro donne economicamente indipendenti (e certo oggi essere economicamente indipendente a trent’anni è un sogno per donne, uomini e tutt* quant*, ma questo è un altro discorso), sono donne che vivono una sessualità libera e in alcuni casi promiscua, pur, questo è vero, mantenendosi in un orizzonte eteronormativo, donne che parlano di masturbazione e di sesso occasionale.
Ma sono soprattutto donne che sbagliano: in amore, nel lavoro, con le amiche e in ogni campo della vita, non sono perfette, perché se andiamo al di là degli outfit sempre on point, per quanto per certi versi profondamente opinabili (mi sono sempre chiesta come potessero essere un top o una gonna insieme così brutti e così belli), queste donne piangono e sì, spesso lo fanno per amore. Ma ha veramente così importanza?
Perché io una cosa da questa serie in realtà credo di averla imparata: che va bene essere giù, va bene piangere, non fare niente e non uscire per giornate intere, va bene essere struccate e con le occhiaie e vedersi brutte nello specchio, va bene scappare come una ladra se vedi un ex per strada, va bene vomitare su una spiaggia perché hai appena visto l’amore della tua vita con un’altra. E non perché siamo donne e quindi “dolcemente complicate” o come cazzo ci vorrebbe Enrico Ruggeri (autore della canzone Quello che le donne non dicono, per la sottoscritta diventata ormai un meme) ma perché è giusto e sacrosanto piangere e stare male.
Quindi direi che no, nessuna delle quatto amiche è una paladina del femminismo ma alla fine chi di noi lo è? Non lo era fino in fondo neanche Simone de Beauvoir, dobbiamo esserlo noi povere mortali? Noi possiamo e dobbiamo renderci conto di vivere in una società patriarcale e fallocentrica e dobbiamo lottare in ogni modo per cambiarla e per cambiare la rappresentazione, che passa sì anche da film e serie tv, della donna. Dobbiamo cercare di non adeguarci al male gaze e a tutto ciò che questa società ci impone, ma non dobbiamo mortificarci se alcune volte cediamo e sbrocchiamo perché vediamo il nostro ex con un’altra o se il tipo che ci piace sparisce senza motivo spezzandoci il cuore, che va bene anche quello, essere una cessa schiava del patriarcato qualche volta, questo ho imparato da Sex and the City, e scusate se è poco.