Quante volte abbiamo comprato online? E quanti dei nostri acquisti sono passati per Amazon? Impossibile ricordarli, però, se ci mettiamo a tavolino, possiamo contare lo spreco del colosso americano. Andiamo per gradi.
I progetti e il “green washing”
Nel 2019 era stata lanciata una campagna volta a raggiungere, entro il 2040, lo 0% di emissioni di CO2 in tutto il business. Obiettivo fissato dagli accordi di Parigi per il 2050. Amazon, quindi, aveva lanciato la sfida per il primato con 10 anni di anticipo, ma non si era limitato a questo.
Cavalcando l’onda della sempre più impellente necessità di diventare un’azienda eco-friendly, la piattaforma consumistica per eccellenza aveva avviato il progetto: Climate Pledge Friendly. Una vera e propria etichetta che certificasse la sostenibilità di buona parte degli articoli venduti (soprattutto tra moda, elettronica e alimentari). Ahimè, gli articoli certificati con questa etichetta sono solo lo 0,2% dei prodotti totali venduti online.

Negli ultimi anni, come incentivo al rispetto ambientale, Amazon si è lanciato in un’altra iniziativa: l’eco-packaging. Con un occhio alla sostenibilità dei prodotti e degli imballaggi ed uno al tentativo di limitare sempre più l’inquinamento dovuto a produzione, stoccaggio e trasporti, il gigante dell’e-commerce fatica a raggiungere gli obiettivi prefissati.
Prima ancora dello scoppio della pandemia, le emissioni di CO2 prodotte da Amazon erano aumentate del 15% e, visto il boom che c’è stato degli acquisti online nell’ultimo anno e mezzo, sarebbe ingenuo pensare ad un miglioramento.
Gli sprechi
Si apre, così, la grande scatola nera di Amazon, i cui buoni propositi sono stati recentemente cancellati da un’inchiesta della testata inglese Itv News. Se ci spostiamo nell’est della Scozia, a Dunfermline per la precisione, troviamo uno dei tanti magazzini del Regno Unito. Perché questo è così speciale? Un impiegato (in un intervista anonima) ha denunciato che ogni settimana 130 mila prodotti nuovi (!) vengono distrutti. Resi in buone condizioni, ordini errati o semplicemente oggetti “che prendono posto in magazzino” vengono buttati in discarica.

La colpa è davvero degli alti costi di stoccaggio? Così pare, dato che l’azienda ha recentemente aumentato i costi a discapito delle piccole, medie e grandi imprese, produttrici e fornitrici dei prodotti rivenduti sulla piattaforma, per poter mantenere le loro merci nei propri magazzini.
L’ente ha sempre ribadito il proprio obiettivo: soddisfare i clienti. Mera facciata. Aumentando le tariffe per i venditori e i prezzi delle merci, Amazon riesce ad aumentare i propri ricavi e portare avanti quella che è la politica di massimizzazione del profitto.
I progetti ecosostenibili ci sono e sono stati sempre riconfermati dall’azienda, i fondi anche, ma “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” e Amazon, ora più che mai, ne sta dando la prova.