Gli USA e la NATO hanno deciso di ritirarsi dall’Afghanistan: le operazioni cominceranno a maggio e – secondo le dichiarazioni di Biden – si concluderanno per l’11 settembre.

A vent’anni dagli eventi del 9/11 che hanno dato inizio alle operazioni militari della war on terror, sia Biden che il Segretario di Stato Blinken spiegano che gli obiettivi originari sono stati raggiunti: Osama bin Laden è stato ucciso nel 2011 e ora l’organizzazione terroristica al-Qaeda nel paese è molto più debole, dunque si è impedito che l’Afghanistan diventasse una base per le organizzazioni terroristiche. Nonostante ciò, la presenza occidentale è durata altri dieci anni: riflettendo su questo fatto, Biden ha aggiunto che da quel momento gli obiettivi degli alleati transatlantici sono diventati molto meno chiari.

Non significa che gli USA, la NATO e gli altri Stati sono rimasti nel paese senza uno scopo: in questo decennio hanno lavorato per realizzare una riorganizzazione istituzionale (dunque c’è stato un tentativo di state-building), ma l’affermazione di Biden ha comunque un fondo di verità. A riguardo si può richiamare quanto scritto in “L’intervento militare democratico. Le nuove pratiche dell’ingerenza e la crisi della sua natura temporanea” (FrancoAngeli, 2010) da Andrea Carati (docente presso la Statale di Milano e ricercatore presso l’ISPI).

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L’analisi di Carati

Carati spiega che la fine della Guerra Fredda rese gli USA l’unica superpotenza nel contesto internazionale: i valori occidentali furono incontrastati e vennero usati per interpretare le relazioni internazionali, anche grazie alla legittimazione che ne diede l’ONU (che fu creata dopo la Seconda Guerra Mondiale sulla base di tali valori, ma durante la Guerra Fredda non riuscì a renderli la logica interpretativa prevalente nelle relazioni internazionali perché il sistema veniva di fatto gestito da USA e URSS). Grazie a questa nuova concezione delle relazioni internazionali si diffuse il concetto di intervento democratico, cioè con obiettivi di democratizzazione del contesto dell’intervento stesso.

Carati nella sua riflessione nota che tale tipo di intervento ha però intrinsecamente il rischio di dilatarsi temporalmente. L’intervento militare democratico è considerato legittimo dalla comunità internazionale, che può perciò intervenire con azioni multilaterali, e si basa su logiche di ethical foreign policy: salvaguardare i diritti umani è una prerogativa e per farlo è accettato intervenire nel contesto interno di uno Stato. Anche in caso di intervento armato, la fase di post-conflict è più importante di quella di combattimento.

Truppe statunitensi a contatto con la popolazione afghana – DoD photo of Senior Airman Sean Martin, U.S. Air Force, via Wikimedia Commons

I difetti principali di questo tipo di intervento sono le difficoltà di coordinamento tra i vari Stati e soggetti coinvolti, ma anche – e soprattutto – le difficoltà nell’individuare un fine chiaro al processo di state-building, tanto che a riguardo l’autore parla di crisi della fine dell’intervento: come capire quando una democrazia è stata effettivamente costruita e si trova in una situazione di stabilità sufficiente?

I dubbi

Nell’analisi di Carati il contesto afghano viene utilizzato come case study per valutare la teoria, sebbene non comprenda un’importante parte degli eventi per via della data di pubblicazione del libro. Indubbiamente il contesto internazionale ha subito degli importanti cambiamenti nell’ultimo decennio, però l’interpretazione di Carati può essere utile per interpretare alcuni dei fatti avvenuti in anni recenti.

Ad esempio, è stato proprio Trump a decidere di sviluppare un accordo bilaterale con i Talebani (dunque non coinvolgendovi il governo afghano sostenuto dagli USA), proprio per mettere fine all’impegno statunitense in Afghanistan: se tale intervento si fosse concluso precedentemente e/o se avesse ottenuto dei risultati migliori, chissà come verrebbe considerata la possibilità di presenza militare dall’opinione pubblica e quindi come verrebbero affrontati i casi di Stati deboli o falliti.

Biden ha specificato che questa decisione non comporta un totale disinteresse da parte degli USA nei confronti dell’Afghanistan perché continuerà ad esserci supporto diplomatico e umanitario, sostegno all’esercito regolare locale e soprattutto lotta al terrorismo internazionale. Inoltre, il Presidente ritiene che la stabilità dell’Afghanistan sia nell’interesse di altri Stati presenti o attivi nella regione (Pakistan, Russia, Cina, India e Turchia): nelle relazioni internazionali, però, stabilità non necessariamente significa pace; stabilità, purtroppo, può non necessariamente significare garanzia dei diritti umani, cioè la più grande incognita in caso di mancata tenuta delle istituzioni afghane senza la diretta presenza statunitense e della NATO e in caso di una ripresa di potere talebana.

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Di Alessio Piccoli

Mi chiamo Alessio Piccoli, ho 23 anni e vengo da un piccolo paese in provincia di Pordenone. Studio Scienze Politiche all'Università Cattolica di Milano ed è proprio di politica che mi occupo, interessandomi principalmente ai contesti italiano, europeo e statunitense. Tra le mie altre passioni ci sono la musica e gli sport, il calcio soprattutto.

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