Colin Kaepernick

A protestare contro il dilagante razzismo in America, soprattutto dopo una serie di casi mediatici che hanno fatto il giro del mondo, sono stati anche i campioni dello sport americano.

Dal football, all’NBA, al baseball, la protesta è partita dai singoli giocatori, finendo per coinvolgere tutte le squadre dei rispettivi campionati. 

Tra i grandi del football americano, il primo a protestare (nell’agosto del 2016) fu il quarterback dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernik.

Protestò rimanendo seduto in panchina durante l’esecuzione dell’inno nazionale e, ad oggi, lotta contro l’oblio.

Prima che altri imitassero il suo gesto di protesta, l’atleta è stato escluso dalle competizioni nazionali e non è stato più ingaggiato da alcuna squadra.

Il suo fu un atto di “sfida”, soprattutto dopo i casi di violenza da parte della polizia nei confronti degli afroamericani, in una nazione che celebra le forze armate anche durante gli eventi sportivi. 

Altri hanno seguito il suo esempio, inginocchiandosi e andando contro alle direttive della NFL (la lega professionistica di football americano).

Donald Trump chiese drasticamente alla NFL di licenziarli, arrivando persino a incoraggiare i tifosi a non partecipare alle competizioni sportive.  

In risposta, alla prima partita dopo le dichiarazioni dell’ormai ex Presidente, tutti gli atleti di entrambe le squadre, i Jacksonville Jaguars e i Baltimore Ravens, si sono inginocchiati in segno di protesta.

Gli unici a restare in piedi, ma con le mani sulle spalle dei propri giocatori in segno di solidarietà, sono stati gli allenatori e i proprietari delle due squadre.  

Da quel momento il football americano è diventato lo sport vetrina della battaglia contro il razzismo, tanto da coinvolgere anche i grandi artisti del panorama internazionale.

Moltissimi cantanti hanno rifiutato l’invito all’evento forse più seguito d’America: il Super Bowl.

Le più note voci della musica, invitate a calcare il palco della competizione sportiva, hanno detto “No” in segno di protesta.

Da Rihanna, a Pink, ai Coldplay, Beyoncè e Lady Gaga sono alcuni dei nomi che hanno rifiutato la partecipazione al Super Bowl.  

Jesse Owens

La storia di James Cleveland Owens è la classica storia di un afroamericano vissuto negli Stati Uniti nella prima metà del ‘900.  

I nonni furono schiavi nelle piantagioni di cotone, aveva sei fratelli e nelle corse fatte dalle piantagioni in cui lavoravano a casa andava più forte di tutti. 

J.C. a scuola non poteva andare e gli insegnamenti, come era uso nelle culture africane, li apprendeva la sera dopo il lavoro.

Frequentò la prima elementare all’età di 10 anni perché quasi del tutto analfabeta, fu troppo timido quando la sua maestra interpretò “J.C. Owens” con “Jesse Owens” e da lì non tornò più indietro.  

Si presentò alle Olimpiadi del 1936 di Berlino – con vari record stabiliti durante il college, frequentato ad Ohio State – come l’antagonista di Hitler e Goebbels e la loro propaganda della superiorità della razza ariana.  

Per il peso politico dell’epoca e per la portata storica, quella di Berlino rimane la più importante olimpiade dal ‘900 ad oggi.

Vince l’oro nei 100 metri, nei 200 metri, nel salto in lungo che fu ( la più bella gara della manifestazione) e nella staffetta 4×100. 

Gli americani non avendo una loro storia costruiscono la loro epica in base a Hollywood e agli eroi sportivi.

Jorge Luis Borges

Owens al suo ritorno, non fu trattato come un eroe nazionale: non ricevette alcuna lettera scritta da parte del presidente Roosevelt, il quale però ne fece recapitare una a Glen Morris, atleta bianco vincitore nel decathlon.

Nel 1936 agli atleti afroamericani non veniva più concesso spazio per correre.

J.C. non correrà mai più se non a Cuba in una esibizione contro un cavallo, come in un’attrazione circense.

La storia però sa sempre da che parte stare e Owens tutt’oggi rimane uno dei più grandi simboli sportivi americani, in grado di ispirare documentari e film proprio per quel discorso di epica fatto da Borges. 

Da quell’estate berlinese, lo sport non è più riuscito a liberarsi della sua prerogativa politica. La politica però non è ancora riuscita ad appropriarsi delle storie degli atleti

Ah sì, Jesse la gara contro il cavallo a Cuba l’ha vinta. 

Hank Aaron

Hank Aaron è stato il fuoricampista di baseball più forte del mondo, ma aveva un solo problema: era nero. 

“Avevo appena finito di mangiare con la mia squadra, gli Indianapolis Clowns, e nel ristorante ad un certo punto sentii tutti i piatti rompersi per terra. Mi colse un’ironia dentro di me: siamo nel Paese della libertà e nei ristoranti rompono i piatti perché con quelle forchette e con quei piatti ci ha mangiato un nero. Se dei cani avessero mangiato lì, quei piatti li avrebbero lavati”.

Hank Aaron, 1952

Nel 1974, sotto minacce di morte, riuscì lo stesso a battere il record di fuoricampo dell’eterno Babe Ruth: 714.

Per molti americani fu un dramma: un afroamericano che batte Babe Ruth, inaccettabile. 

Anche nel baseball, i neri erano “confinati”: giocavano nella Negro League, fino ai primi anni ‘70.

Aaron era nettamente il più forte di tutti, ma lo esprimeva con umiltà e con il sogno di giocare nella Major League.

Un miraggio che prese forma proprio per battere il record di Babe Ruth: il servizio postale americano, pochi giorni prima dell’8 aprile 1974 (il giorno del superamento del record), contò oltre 900.000 lettere con destinatario Hank.  

Oltre alle minacce di morte, moltissime parole di cordoglio: Aaron continuò ad essere l’unico nero a battere record su record nel baseball americano. 

Mai una parola fuori posto, mai una rivincita etica o una ribellione contro i pregiudizi razziali nei suoi confronti.

Hank Aaron è morto il 21 gennaio di quest’anno, ma rimarrà il giocatore di baseball più forte di tutti i tempi, contro ogni forma di razzismo ed ogni minaccia subìta. 

(Foto di copertina da: Corriere del Ticino)

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